domenica 11 settembre 2011

L'inizio della fine della Jihad di V.E. Parsi

Le rivoluzioni arabe del 2011 stanno sottraendo terreno al terrorismo
Pochi fatti come gli attentati dell’11 settembre e pochi personaggi come Osama Bin Laden sono stati in grado di conquistarsi una fama, per quanto sinistra, altrettanto planetaria da essere immediatamente associati da chiunque nel mondo all'idea stessa di jihadismo e al terrorismo di matrice islamista.Un’associazione talmente stretta da averci fatto sovrapporre totalmente terrorismo e jihadismo al radicalismo islamista nel suo complesso. Difficile che potesse andare diversamente, d’altronde, se proprio in conseguenza dell’incubo che si materializzò in diretta tv, in una soleggiata mattina della costa atlantica degli Stati Uniti, abbiamo vissuto per quasi un decennio l'era della «war on terror», concretizzatasi nella decisione americana di combattere due guerre in terre musulmane.
Di questi 10 anni di conflitto sono stati fatti tanti bilanci, tutti di necessità ancora provvisori, e però quasi tutti immancabilmente critici.
Troppe vite sono andate perdute e molti degli obiettivi politici che gli interventi militari si proponevano non sono stati raggiunti. È opinione diffusa che, almeno in parte, proprio la presenza militare occidentale in Afghanistan e Iraq abbia concorso ad alimentare il jihadismo e a rinfoltirne le file. Lo si è detto in particolare del conflitto iracheno, ingiustificabile rispetto ai fatti dell’11 settembre.
Eppure, proprio la guerra in Iraq, rapidamente degenerata in un'insorgenza di vaste proporzioni contro l'occupazione americana e in una feroce guerra civile tra sciiti e sunniti, ha contribuito ad alienare ai jihadisti molte delle simpatie di cui inizialmente godevano. Così è successo a mano a mano che gli adepti di Bin Laden ammazzavano un numero crescente di musulmani a fronte dei «crociati» uccisi. Parafrasando Gilles Kepel, «la fitna ha preso il posto della jihad», cioè il conflitto intra-islamico per la purificazione della società ha sostituito gradualmente la lotta contro gli infedeli. Se oggi ci chiediamo che cosa resti del jihadismo globale e soprattutto della sua manifestazione più inquietante per noi, il terrorismo globale di matrice islamista, la risposta è ben poco.
Per evitare di montarci la testa occorre subito precisare che un simile risultato non è stato raggiunto per merito nostro, ma semmai nonostante i nostri errori. Sono state le rivoluzioni arabe di quest’anno a sottrarre terreno al terrorismo jihadista, grazie alla loro capacità di ridare speranza alle fin qui disperate masse arabe e a borghesie politicamente alienate, conseguendo il risultato di rovesciare despoti corrotti o regimi privi di legittimazione attraverso la lotta politica pubblica: talvolta ricorrendo alla forza delle armi, ma rifiutando la logica della clandestinità e degli atti dimostrativi violentemente spettacolari.
Può ben darsi che a novembre, in Egitto, i Fratelli musulmani vincano le elezioni, come era accaduto con Hamas a Gaza, o che lo stesso accada in Tunisia o magari in Libia. Ma confondere le formazioni islamiste radicali con i gruppi terroristici jihadisti è un errore grossolano che a Washington è costato e sta costando carissimo in termini politici.
Diverso è il discorso sulla tenuta del jihadisno per quanto riguarda i fronti di guerra ancora aperti con l’Occidente (come l’Afghanistan) e i Paesi coinvolti in questi conflitti (come il Pakistan). Lì, proprio la presenza militare occidentale e l'elevato numero di «vittime collaterali» della nostra guerra tecnologica continua a produrre reclute per il jihadismo, che spesso è però la coloritura prevalente della lotta contro la presenza straniera, interpretata da molti come una occupazione militare.
Altra cosa ancora è quella legata all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, dove lo jihadismo è solo l’ultima forma assunta da una lotta di liberazione nazionale andata sempre frustrata, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Evidentemente compiere strage di civili innocenti per uccidere alcuni «riservisti» di Tsahal (così come per assassinare un fedayn palestinese) è un atto criminale e inaccettabile. Ma definire tutto ciò jihadismo o persino terrorismo islamista non è di nessuna utilità e arreca solo confusione.
Un’avvertenza, quest’ultima, da tenere bene a mente nell’eventualità che movimenti politici di ispirazione islamista possano vincere le prossime elezioni in Egitto o Tunisia, per evitare di incorrere nello stesso errore che già abbiamo commesso in Algeria e a Gaza, di non riconoscere un risultato perché non era quello da noi auspicato. A meno che non si voglia contribuire a ridare linfa a una pianta che il vento della Primavera araba sta decisamente seccando.

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