giovedì 24 luglio 2008
lunedì 21 luglio 2008
ALLA MAMMA DI ELUANA DA MAMMA SARA
giovedì 17 luglio 2008
Celentano per la vita
lunedì 14 luglio 2008
D'AGOSTINO SUL CASO ELUANA
Quei giudici non si sono accorti Hanno tolto dignità alla professione medica
FRANCESCO D’AGOSTINO
« C he senso ha far vivere persone che saranno per sempre vegetali?». È questa la domanda che oggi viene alla mente di molti. È la domanda che si pone il neurologo Carlo Alberto Defanti, dichiarandosi disposto a portare alla sua tragica conclusione la triste vicenda di Eluana Englaro. La domanda, ovviamente, è retorica: chi la pone è graniticamente convinto che è impossibile darle una qualsiasi risposta che sia dotata di senso. Eppure, risposte più che adeguate a questa domanda esistono e per di più a diversi 'livelli'. Partiamo dal livello più alto, quello davvero fondamentale, anche se oggi è il meno percepito o comunque il più trascurato. Alludo al livello della spiritualità e della conseguente sublimazione della vita fisica e della sofferenza che la contrassegna, a volte in modo drammatico, se non atroce.
Prendersi cura dei malati e in particolare di quelli incurabili, di quelli più ripugnanti, di quelli per i quali non esiste alcuna speranza non solo di guarigione, ma anche semplicemente di un miglioramento, ha un senso profondo: è probabilmente la più alta testimonianza che sia possibile immaginare del primato dello spirito umano su quella 'materia' che è il nostro corpo. In questa prospettiva, 'curare' è 'consolare' e la 'cura' è la più alta forma di 'consolazione', in quel senso etimologico della parola, su cui tante volte ha richiamato l’attenzione Benedetto XVI: consolare un essere umano significa non lasciarlo solo nelle sue sofferenze; significa dare testimonianza che mai un essere umano agli occhi dello spirito può essere analogato a un 'vegetale'. Per questo lo Spirito Santo è eminentemente chiamato il 'consolatore'; per questo non lasciar soli coloro che più di altri hanno bisogno di vicinanza, aiuto e cura è prima ancora che pratica solidaristica un’opera di altissima misericordia. So bene che questo argomento lascia freddi tutti quei 'laici' che, adottando un’antropologia rigidamente individualistica, se non materialistica, rigettano come irrazionale, intimistico, e comunque inutilizzabile il tema della 'consolazione'. Eppure, anche in una prospettiva rigidamente secolare questo tema è ineludibile: è su di esso che si fonda la pratica medica, è esso che ne giustifica la nobiltà e la dignità. La medicina è la più nobile (e la più laica!) prassi sociale di 'consolazione' non perché assecondi la natura, ma perché la contrasta, e spesso (come nel caso dell’assistenza ai morenti) contro ogni speranza. Il fatto – rilevato correttamente da Defanti e assieme a lui da tanti altri – che in natura lo stato vegetativo non esista, non può diventare argomento perché il medico operi per interrompere la vita dei malati in coma, perché il medico non è solo colui che è chiamato a guarire, ma soprattutto colui che con un giuramento si è impegnato a prendersi cura del malato, a non lasciarlo mai in abbandono. Questo significa che il medico può porsi qualunque domanda, ma non quella che sembra diventata oggi ossessiva: «Che senso ha far vivere persone che saranno per sempre vegetali?». Al medico, e a chiunque altro, questa domanda è preclusa, perché nessuno – nemmeno il medico – è legittimato a porsi stando in una posizione di potere la domanda sul senso della vita e in particolare sulla vita dei soggetti più deboli e più fragili. Si dice: ma questa era la volontà di Eluana, per come è stata definitivamente accertata dai giudici.
Dubito che tale accertamento sia stato accurato. Dubito che si possano considerare autentiche espressioni di volontà affermazioni espresse tanti e tanti anni fa, in contesti indubbiamente emotivi, privi di quella freddezza valutativa che deve stare alla base di ogni decisione di fine vita. Ma anche ammettendo tutto questo, resta come punto fermo che ai giudici del caso Eluana spettava solo riconoscere come suo diritto quello di non essere sottoposta a terapie coercitive e ad accanimento terapeutico, non quello di essere privata (sotto supervisione medica!!!) dell’alimentazione e quindi abbandonata in uno stato che la porterà ineluttabilmente alla morte, anche se non prima di due settimane. I giudici non se ne sono accorti: decidendo che è doveroso far morire Eluana, hanno tolto dignità alla medicina. Hanno, inconsapevolmente, umiliato la più nobile professione che esista al mondo.
venerdì 11 luglio 2008
ELUANA ENGLARO RESTA CON NOI
Da Zenit 11-07-2008
Il caso Eluana, quando i giudici vanno contro la Costituzione
Afferma il prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto civile
ROMA, giovedì, 10 luglio 2008 (ZENIT.org).- La sentenza della Corte di Appello di Milano sulla vicenda della ragazza di Lecco che vive in stato vegetativo da circa 16 anni pone in Italia l’interrogativo inquietante se, dunque, si sia definitivamente aperto all’eutanasia e se ciò sia conforme alle leggi della Repubblica italiana.
Lo abbiamo chiesto al prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto privato all’Università di Napoli “Parthenope” e di Diritto civile all’Università Europea di Roma.
Cosa dice esattamente la decisione dei giudici di Appello di Milano?
Prof. Alberto Gambino: La decisione fa seguito alla sentenza di Cassazione dello scorso ottobre ove si afferma che si può autorizzare la cessazione delle terapie di un paziente in stato vegetativo “irreversibile”, ove si ritenga, in base ad alcune presunzioni, che questa sia la sua volontà. Ora i giudici d’Appello applicano il principio al caso specifico ricorrendo alla figura del rappresentante legale.
Cosa significa questo?
Prof. Alberto Gambino: Significa che un soggetto diverso da Eluana può decidere se interrompere le terapie. Ma attenzione qui c’è già un gravissimo errore di fatto: Eluana non è sotto terapia, ma viene alimentata attraverso un tubicino. Si tratta, dunque, di non darle più da bere e da mangiare, esattamente come il caso di Terry Schiavo.
Ma Eluana, se fosse cosciente, potrebbe sottrarsi a tale alimentazione artificiale?
Prof. Alberto Gambino: Il punto è proprio questo: “se fosse cosciente”. Ma Eluana non lo è, e, dunque, si ricorre ad un terzo soggetto, che secondo i giudici fungerebbe da arbitro circa la presunta volontà di Eluana, ma che in realtà pone in essere un arbitrio giuridicamente e costituzionalmente inaccettabile.
Perché questo comportamento è secondo lei contrario al diritto?
Prof. Alberto Gambino: Intanto perché il nostro diritto conosce la figura della rappresentanza solo per l’esercizio di diritti disponibili e, invece, la vita è giuridicamente “indisponibile”. Poi, e soprattutto, perché il diritto serve a tutelare le persone, qui, invece, viene strumentalmente utilizzato per eliminarle. A ben vedere, da un punto di vista giuridico, non c’è molta differenza con il potere di vita e di morte degli imperatori romani, l’ideologia nazista o la schiavitù che rende gli uomini come cose.
Sono concetti forti...
Prof. Alberto Gambino: Sono concetti forti se si ha un approccio culturale – è chiaro che le situazioni storicamente e socialmente sono diverse – ma sono concetti esatti se si ha presente la funzione del diritto che è, ripeto, quella di tutelare sfere di interesse, in primis la vita, non di annientarle.
I giudici richiedono anche una valutazione dei principi etico-religiosi del malato.
Prof. Alberto Gambino: E questo non può che aggravare l’erroneità della decisione della Corte d’Appello e, ancora prima, della Cassazione. Risalire alle visioni del mondo del paziente, che nessuno può dire ancora attuali, significa definitivamente di non tenere conto della reale volontà del malato, che, per essere libera, deve essere attuale, circostanziata e contestualizzata. E’ umanamente drammatico e sbagliato retrodatarla perché si finisce, come detto, per farsi strumento di un arbitrio, in base ad una presunta volontà altrui.
Lei afferma che la decisione è inaccettabile anche con riferimento alla Costituzione italiana.
Prof. Alberto Gambino: Sì, intanto perche alcuni interpreti fanno erroneamente discendere il diritto del malato al rifiuto delle cure dall’art. 32 della Costituzione, dove si fa divieto di trattamenti sanitari obbligatori a meno che non ci sia una legge a consentirli. Nel caso di Eluana, intanto non siamo davanti ad un trattamento sanitario, che non consiste certo nel dare da mangiare ad un malato. Inoltre l’articolo 32 della Carta costituzionale si riferisce a trattamenti collettivi, come una terapia imposta dall’autorità pubblica ai cittadini, e non alla cura indicata dal medico per un singolo paziente. Se solo si avesse tempo di rileggere la nostra bellissima Costituzione, ci si accorgerebbe subito che nel dibattito alla Costituente su questo articolo l’obiettivo era quello di evitare, memori delle aberrazioni dei regimi totalitari, interventi terapeutici di massa.
In base a cosa allora il paziente può rifiutarsi?
Prof. Alberto Gambino: In base alla sua libertà, che preclude che altri possano intervenire sul proprio corpo senza il necessario consenso dell’interessato. Siamo nell’articolo 2 della Costituzione che riconosce i diritti inviolabili della persona e la sua libertà ne è il presupposto, fino alla drammatica estrema conseguenza di lasciarsi morire anziché farsi curare, come riportarono le cronache qualche anno fa per il caso di una donna che rifiutò l’amputazione di un arto in cancrena, e poi a causa di questo morì.
Sono decisioni legittime queste?
Prof. Alberto Gambino: Eticamente non le condivido, ma il diritto preserva lo spazio di libertà; sarà poi la coscienza morale degli uomini o, per chi crede, Dio, a giudicare.
Dunque il cerchio si chiude, la libertà può essere esercitata soltanto dall’interessato?
Prof. Alberto Gambino: Esatto. Nessuno può farsi rappresentante di decisioni drammatiche come l’esito della vita di una persona. E’ proprio per questo che parlo di “paradosso del testamento biologico”: si vuole tutelare la libertà dell’individuo di rifiutare le cure o addirittura il cibo, e poi quella libertà viene esercitata da vari soggetti tranne che dal suo effettivo titolare. Come ho già avuto modo di dire, siamo davanti ad un’analisi fondata sullo schema costi-benefici e non sulla reale salvaguardia della libertà della persona. Il malato in stato vegetativo finisce per essere considerato un “peso” sociale, che, per quanto umanamente drammatico, non potrà mai ridurre il valore della persona-soggetto di diritto ad un bene disponibile come se fosse una cosa.
Questa situazione rappresenta per l’Italia l’anticamera dell’eutanasia?
Prof. Alberto Gambino: No, è già eutanasia.
Osservatore Romano 11-07-2008
Un principio costitutivo di ogni democrazia
La vita umana
non è disponibile
di Adriano Pessina
Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica
Università Cattolica del Sacro Cuore
Sono molti i motivi che inducono a dissentire dalla sentenza della Corte d'appello civile di Milano che autorizza Beppino Englaro, in qualità di tutore, a ottenere l'interruzione del trattamento di idratazione e alimentazione che da sedici anni permette alla figlia, Eluana, di continuare a vivere. I due criteri introdotti per autorizzare questa sospensione fanno riferimento sia alla volontà di Eluana, sia alla sua condizione di perdita irreversibile della coscienza. Stando a una ricostruzione basata su diverse testimonianze, Eluana avrebbe espresso il desiderio di non vivere "senza essere cosciente, senza essere capace di avere esperienze e contatti con gli altri". Nella sentenza si cita, di sfuggita, l'"impostazione cattolica" propria di Eluana, ma si ritiene che non possa contrastare le altre dichiarazioni.
Qualche considerazione: in Italia non esiste il cosiddetto "testamento biologico", che di per sé è un documento scritto alla presenza di testimoni, e che può essere cambiato in ogni momento, per cui risulta un'evidente forzatura attribuire una rilevanza decisiva a una volontà pregressa, indirettamente ricostruita, non univoca, per sospendere trattamenti ordinari. In secondo luogo, la questione è metodologicamente mal posta. Chi vorrebbe vivere in uno stato vegetativo, o avere una demenza senile, o perdere la coscienza di sé? Nessuno.
La domanda legittima è un'altra: quando una persona non è più in grado di accudire se stessa che cosa è doveroso fare, e che cosa è doveroso evitare? In linea di principio nessun testamento biologico dovrebbe avallare né l'eutanasia (che comporta l'uccisione diretta del paziente), né l'abbandono terapeutico, o assistenziale (che determina la morte della persona, ed è moralmente grave tanto quanto la stessa eutanasia).
Non è necessario ricorrere a una concezione religiosa della vita, o negare la possibilità legale e morale di rifiutare trattamenti sproporzionati o inadeguati, per dissentire da questa sentenza: basta sottolineare che nel caso di Eluana si impone di fatto l'interruzione di un lungo processo di accudimento, fatto di attenzione, di amorevole dedizione e di rispetto per la sua dignità personale, che gli stessi protagonisti del ricorso alla Corte di Appello hanno sempre riconosciuto. E questo perché? Perché non è cosciente di sé? Il tema della coscienza è un tema molto delicato da trattare. Ma se Eluana non è davvero cosciente di sé, allora non soffre, e non si capisce perché - se non per un ostinato impianto ideologico a cui uno Stato cosiddetto laico dovrebbe dirsi metodologicamente estraneo tanto quanto a ogni confessione religiosa - la si debba condannare a morte, tramite una lenta agonia.
Nella sentenza, per coerenza con la tesi per cui Eluana dovrebbe essere priva di coscienza, non si parla di farla morire per fame e sete (quando manca la coscienza si parla di disidratazione e consunzione), ma si raccomanda l'uso di "sedativi o antiepilettici" per "eliminare reazioni neuromuscolari paradosse" e si consiglia "umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee a eliminare l'eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell'igiene e dell'abbigliamento del corpo". Ma se davvero Eluana non è cosciente e se la sua, come si legge nella sentenza, è pura vita biologica, per quale motivo tante attenzioni? La risposta è semplice: perché, malgrado la pressione ideologica, risulta difficile, persino a questi giudici, dimenticare che la vita di Eluana è sempre e comunque una vita personale. Chiediamoci: ma davvero sono crudeli coloro che finora si sono presi cura di Eluana, o non lo sono coloro che la condannano all'agonia e alla morte?
Altrettanto discutibile è il potere di vita e di morte che di fatto viene attribuito alla figura del tutore, che dovrebbe agire nel miglior interesse della persona che gli è affidata. Ora, affinché sia impedito ogni arbitrio, bisognerebbe limitare qualsiasi decisione sulla vita delle persone e si dovrebbe garantire a ogni cittadino la certezza che il valore della sua esistenza non verrà determinato in base ad alcuna particolare concezione antropologica. Solo così si garantisce il principio, costitutivo di ogni democrazia, della non disponibilità della vita umana e della sua intrinseca dignità, che non è un possesso che si possa acquisire o perdere, ma il segno dell'incommensurabilità della vita umana stessa, che non ha prezzo e che è fondamento dei diritti umani. La stessa medicina rischia di perdere la propria autonomia e diventare uno strumento di discriminazione quando accetta di sospendere trattamenti ordinari a motivo di una decisione che non ha fondamento clinico: si incrina il dovere costitutivo del prendersi cura di tutti i pazienti che non sono in grado di intendere e di volere.
Questa sentenza e questa scelta del padre, comunque, non fermeranno le battaglie quotidiane che i parenti dei molti pazienti che sono nelle condizioni di Eluana stanno combattendo per ottenere strutture adeguate e personale qualificato in grado di prendersi cura dei loro familiari, che vivono in una particolare condizione di gravissima disabilità. Questa sentenza non rappresenta certo il welfare che ci si aspetta da una civiltà del diritto.
giovedì 10 luglio 2008
COMUNICAZIONE
giovedì 3 luglio 2008
ADDIO AL BIMBO IN 900 SECONDI
La testimonianza: "Addio al bimbo in 900 secondi"
Il Giornale - Redazione di Genova, mercoledì 09 gennaio 2008
di Stefania Antonetti
Dovrebbero farmi visite, sedute con lo psicologo, darmi assistenza, promettermi anche aiuti. Invece no, basta una telefonata, e nel peggiore dei casi una visita ginecologica, poi il lasciapassare per uccidere il figlio che ho in grembo a Genova me lo rilasciano senza problemi.
Non solo non ho mai pensato all'aborto, ma un figlio non lo aspetto nemmeno. Al consultorio però faccio finta di essere incinta, vantando anche un certificato medico. Ecco come sono arrivata all'ingresso della sala operatoria in quattro mosse, in quattro tentativi in altrettanti consultori della mia città. In una due-giorni in giro per consultori, ne ho viste davvero tante. E più che vedere, ne ho sentite anche tante. Si parte dal centro.
Primo consultorio, ore 8.30. Presentarsi di buon mattino e sentirsi dire - per altro abbastanza sbrigativamente - che è necessaria per il rilascio del certificato di aborto la visita del medico nella struttura, senza la quale non si può prendere nessun appuntamento negli ospedali cittadini per abortire, è assai riduttivo. E abbastanza avvilente. Secondo appuntamento. Ore 11. Consultorio poco distante dal primo. Stesse modalità, stessa tecnica: «Se non si fa visitare, signora, noi non possiamo rilasciare nessun certificato che la autorizzi ad andare in ospedale. C'è poco tempo da pensare signora», ribadiva il medico incontrato. Questa sembra essere stata l'unica grande preoccupazione, farmi abortire in tempo. Probabilmente sì, se l'attenzione è tutta concentrata sul mio rifiuto a farmi visitare. Terzo appuntamento in altra delegazione. Ma almeno questo non mi butta giù dal letto.
È primo pomeriggio. Aspetto fuori in un ingresso già di suo angosciante e fatiscente. Alcune immagini alle pareti di bambini che giocano mi faranno presto dimenticare che proprio lì, in quel consultorio, c'è un medico talmente attento alle mie esigenze e alle mie preoccupazioni materne future che nell'arco di pochi minuti mi saluta con tanto di certificato in mano. Ma non è il mio che mi restituisce: è il suo. Ovvero il certificato di aborto. Peccato però che lo «scrupoloso» medico mi abbia consegnato il tutto senza neanche preoccuparsi di chiedermi se volevo o meno essere visitata. Sulla base insomma di un test fatto. Perché altre domande, proprio non ci sono state. Quindi se qualcuno auspica che l'aborto non sia l'unica strada che ha di fronte una madre disperata, può cominciare a dubitare. E se quel qualcuno pensa anche che non si deve andare in un consultorio solo per sapere come abortire, ma anche per cap ire cosa si può fare per evitare l'aborto, dubiti ancora. Perché ciò che manca, sempre, in qualsiasi struttura e non solo in quella che rilascia il certificato «a vista», è il supporto psicologico atto a garantire e a diffondere «valide alternative all'interruzione volontaria della gravidanza».
Eppure persino la tanto discussa legge 194 che stabilisce le norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza, è chiara. Persino il legislatore che ha «permesso» l'aborto, lo indica come l'ultima soluzione. Ma nella realtà è diverso. È vero che nessuna donna (me compresa) viene costretta a presentarsi in un consultorio chiedendo di abortire, ma è altrettanto vero che nessuna donna (sempre me compresa), può contare su un aiuto per capire quali possano essere le alternative alla sua/mia decisione. Perché la paura in questi momenti è lecita, la solitudine no.
Pochi, pochissimi i segnali di conforto psicologici, e molta invece la fretta. Una fretta e una semplificazione direttamente constatabile anche in un ospedale della città (il mio quarto tentativo), dove le informazioni mi sono state date davanti all'ingresso, esattamente in corridoio, vista muro. Alla faccia della riservatezza. Di un aborto che non dovevo fare, mi resta sulla scrivania un certificato di aborto. Che non adopererò mai.