CASO ELUANA. E VIDENTI ADERENZE MA NON PER LA CAUSA DELLA VITA
Quei giudici non si sono accorti Hanno tolto dignità alla professione medica
FRANCESCO D’AGOSTINO
« C he senso ha far vivere persone che saranno per sempre vegetali?». È questa la domanda che oggi viene alla mente di molti. È la domanda che si pone il neurologo Carlo Alberto Defanti, dichiarandosi disposto a portare alla sua tragica conclusione la triste vicenda di Eluana Englaro. La domanda, ovviamente, è retorica: chi la pone è graniticamente convinto che è impossibile darle una qualsiasi risposta che sia dotata di senso. Eppure, risposte più che adeguate a questa domanda esistono e per di più a diversi 'livelli'. Partiamo dal livello più alto, quello davvero fondamentale, anche se oggi è il meno percepito o comunque il più trascurato. Alludo al livello della spiritualità e della conseguente sublimazione della vita fisica e della sofferenza che la contrassegna, a volte in modo drammatico, se non atroce.
Prendersi cura dei malati e in particolare di quelli incurabili, di quelli più ripugnanti, di quelli per i quali non esiste alcuna speranza non solo di guarigione, ma anche semplicemente di un miglioramento, ha un senso profondo: è probabilmente la più alta testimonianza che sia possibile immaginare del primato dello spirito umano su quella 'materia' che è il nostro corpo. In questa prospettiva, 'curare' è 'consolare' e la 'cura' è la più alta forma di 'consolazione', in quel senso etimologico della parola, su cui tante volte ha richiamato l’attenzione Benedetto XVI: consolare un essere umano significa non lasciarlo solo nelle sue sofferenze; significa dare testimonianza che mai un essere umano agli occhi dello spirito può essere analogato a un 'vegetale'. Per questo lo Spirito Santo è eminentemente chiamato il 'consolatore'; per questo non lasciar soli coloro che più di altri hanno bisogno di vicinanza, aiuto e cura è prima ancora che pratica solidaristica un’opera di altissima misericordia. So bene che questo argomento lascia freddi tutti quei 'laici' che, adottando un’antropologia rigidamente individualistica, se non materialistica, rigettano come irrazionale, intimistico, e comunque inutilizzabile il tema della 'consolazione'. Eppure, anche in una prospettiva rigidamente secolare questo tema è ineludibile: è su di esso che si fonda la pratica medica, è esso che ne giustifica la nobiltà e la dignità. La medicina è la più nobile (e la più laica!) prassi sociale di 'consolazione' non perché assecondi la natura, ma perché la contrasta, e spesso (come nel caso dell’assistenza ai morenti) contro ogni speranza. Il fatto – rilevato correttamente da Defanti e assieme a lui da tanti altri – che in natura lo stato vegetativo non esista, non può diventare argomento perché il medico operi per interrompere la vita dei malati in coma, perché il medico non è solo colui che è chiamato a guarire, ma soprattutto colui che con un giuramento si è impegnato a prendersi cura del malato, a non lasciarlo mai in abbandono. Questo significa che il medico può porsi qualunque domanda, ma non quella che sembra diventata oggi ossessiva: «Che senso ha far vivere persone che saranno per sempre vegetali?». Al medico, e a chiunque altro, questa domanda è preclusa, perché nessuno – nemmeno il medico – è legittimato a porsi stando in una posizione di potere la domanda sul senso della vita e in particolare sulla vita dei soggetti più deboli e più fragili. Si dice: ma questa era la volontà di Eluana, per come è stata definitivamente accertata dai giudici.
Dubito che tale accertamento sia stato accurato. Dubito che si possano considerare autentiche espressioni di volontà affermazioni espresse tanti e tanti anni fa, in contesti indubbiamente emotivi, privi di quella freddezza valutativa che deve stare alla base di ogni decisione di fine vita. Ma anche ammettendo tutto questo, resta come punto fermo che ai giudici del caso Eluana spettava solo riconoscere come suo diritto quello di non essere sottoposta a terapie coercitive e ad accanimento terapeutico, non quello di essere privata (sotto supervisione medica!!!) dell’alimentazione e quindi abbandonata in uno stato che la porterà ineluttabilmente alla morte, anche se non prima di due settimane. I giudici non se ne sono accorti: decidendo che è doveroso far morire Eluana, hanno tolto dignità alla medicina. Hanno, inconsapevolmente, umiliato la più nobile professione che esista al mondo.
Quei giudici non si sono accorti Hanno tolto dignità alla professione medica
FRANCESCO D’AGOSTINO
« C he senso ha far vivere persone che saranno per sempre vegetali?». È questa la domanda che oggi viene alla mente di molti. È la domanda che si pone il neurologo Carlo Alberto Defanti, dichiarandosi disposto a portare alla sua tragica conclusione la triste vicenda di Eluana Englaro. La domanda, ovviamente, è retorica: chi la pone è graniticamente convinto che è impossibile darle una qualsiasi risposta che sia dotata di senso. Eppure, risposte più che adeguate a questa domanda esistono e per di più a diversi 'livelli'. Partiamo dal livello più alto, quello davvero fondamentale, anche se oggi è il meno percepito o comunque il più trascurato. Alludo al livello della spiritualità e della conseguente sublimazione della vita fisica e della sofferenza che la contrassegna, a volte in modo drammatico, se non atroce.
Prendersi cura dei malati e in particolare di quelli incurabili, di quelli più ripugnanti, di quelli per i quali non esiste alcuna speranza non solo di guarigione, ma anche semplicemente di un miglioramento, ha un senso profondo: è probabilmente la più alta testimonianza che sia possibile immaginare del primato dello spirito umano su quella 'materia' che è il nostro corpo. In questa prospettiva, 'curare' è 'consolare' e la 'cura' è la più alta forma di 'consolazione', in quel senso etimologico della parola, su cui tante volte ha richiamato l’attenzione Benedetto XVI: consolare un essere umano significa non lasciarlo solo nelle sue sofferenze; significa dare testimonianza che mai un essere umano agli occhi dello spirito può essere analogato a un 'vegetale'. Per questo lo Spirito Santo è eminentemente chiamato il 'consolatore'; per questo non lasciar soli coloro che più di altri hanno bisogno di vicinanza, aiuto e cura è prima ancora che pratica solidaristica un’opera di altissima misericordia. So bene che questo argomento lascia freddi tutti quei 'laici' che, adottando un’antropologia rigidamente individualistica, se non materialistica, rigettano come irrazionale, intimistico, e comunque inutilizzabile il tema della 'consolazione'. Eppure, anche in una prospettiva rigidamente secolare questo tema è ineludibile: è su di esso che si fonda la pratica medica, è esso che ne giustifica la nobiltà e la dignità. La medicina è la più nobile (e la più laica!) prassi sociale di 'consolazione' non perché assecondi la natura, ma perché la contrasta, e spesso (come nel caso dell’assistenza ai morenti) contro ogni speranza. Il fatto – rilevato correttamente da Defanti e assieme a lui da tanti altri – che in natura lo stato vegetativo non esista, non può diventare argomento perché il medico operi per interrompere la vita dei malati in coma, perché il medico non è solo colui che è chiamato a guarire, ma soprattutto colui che con un giuramento si è impegnato a prendersi cura del malato, a non lasciarlo mai in abbandono. Questo significa che il medico può porsi qualunque domanda, ma non quella che sembra diventata oggi ossessiva: «Che senso ha far vivere persone che saranno per sempre vegetali?». Al medico, e a chiunque altro, questa domanda è preclusa, perché nessuno – nemmeno il medico – è legittimato a porsi stando in una posizione di potere la domanda sul senso della vita e in particolare sulla vita dei soggetti più deboli e più fragili. Si dice: ma questa era la volontà di Eluana, per come è stata definitivamente accertata dai giudici.
Dubito che tale accertamento sia stato accurato. Dubito che si possano considerare autentiche espressioni di volontà affermazioni espresse tanti e tanti anni fa, in contesti indubbiamente emotivi, privi di quella freddezza valutativa che deve stare alla base di ogni decisione di fine vita. Ma anche ammettendo tutto questo, resta come punto fermo che ai giudici del caso Eluana spettava solo riconoscere come suo diritto quello di non essere sottoposta a terapie coercitive e ad accanimento terapeutico, non quello di essere privata (sotto supervisione medica!!!) dell’alimentazione e quindi abbandonata in uno stato che la porterà ineluttabilmente alla morte, anche se non prima di due settimane. I giudici non se ne sono accorti: decidendo che è doveroso far morire Eluana, hanno tolto dignità alla medicina. Hanno, inconsapevolmente, umiliato la più nobile professione che esista al mondo.
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