venerdì 30 settembre 2011

L'altra sera mi hanno rubato la vita: pesa 137 grammi e vale poche righe, di Francesco Borgonovo

Secondo il regista Alejandro Gonzalez Inarritu il peso dell’anima è di 21 grammi. La mia vita, invece, ne pesa esattamente 137. Cioè quanto l’Iphone 4 che qualche sera fa, a Milano, mi è uscito dalla tasca per finire nelle mani sbagliate. D’un colpo, gli impalpabili byte di memoria occupati dalle mie fotografie, dei miei sms, dalle email sono diventati gravosi come blocchi di marmo:
ho perso il cellulare, e qualcuno si è ritrovato in possesso delle password necessarie per scaricare, copiare, clonare la mia esistenza. Occhi alieni si sono insinuati come un virus nel mio privato, assistendo comodamente seduti in poltrona a un reality show. Con la particolarità che il protagonista ero io, e non mi è piaciuto affatto. Ho scoperto, leggendo Repubblica, che esiste una pratica chiamata lifelogging. Consiste nel filmare e documentare ogni momento della giornata tramite uno smartphone, uno dei tanti telefonini dotati di telecamera, registratore vocale, accesso a internet e quant’altro. Viene utilizzata anche per i malati d’Alzheimer, in modo che possano ricostruire la propria vita passo passo. Inconsapevolmente, ho fatto la stessa cosa. Da quando ho acquistato quell’aggeggino nero e lucido non ne posso fare a meno. Mi permette in ogni istante di spalancare il mondo intero e di guardarci dentro. Nietzsche ghignerebbe sotto i baffoni se sapesse con quale grottesco ribaltamento il mondo lì fuori ha guardato dentro di me, effettuandomi un’autopsia emotiva delle più dolorose. Ho capito che quando, a intervalli regolari durante la giornata, svolgiamo un’accurata autoperquisizione in tutti gli anfratti degli abiti, non stiamo cercando un marchingegno che ci consente di telefonare: stiamo controllando di avere ancora addosso l’hard disk esterno in cui è conservata gran parte di noi e dei nostri sentimenti.
Tutte le informazioni - L’uomo che ha trovato (o, chissà, mi ha sottratto) il telefono ha potuto scoprire il mio nome. Ha visto le immagini della mia faccia, i volti di amici e familiari. Ha scorso la mia rubrica e ha capito che lavoro faccio, che cosa penso dei colleghi, quali cose mi fanno ridere e quali mi commuovono, quali sono i miei orari. Ha appreso quale musica mi piace, e magari si è pure divertito a ridacchiare: «Ma cosa ci fanno le canzoni di Nilla Pizzi qui dentro?». Sassolino dopo sassolino, dato dopo dato, ha disegnato il mio identikit, mi ha aperto la testa e il cuore e ha rovistato per cavarne qualcosa. Certo, avrei potuto essere più prudente, ma di fronte a un professionista codici e programmi di sicurezza si dissolvono senza troppa difficoltà. Un tempo, forse, avrei documentato le mie serate scattando Polaroid da mettere al sicuro in un cassetto. Ma ho il cellulare a disposizione. Cinquant’anni fa, avrei spedito lettere ai conoscenti. Tuttavia ho mandato messaggi di testo, e per l’alieno che si è impossessato del mio Iphone, leggerli è stato come sbobinare le intercettazioni che ora vanno per la maggiore. Ma, come sempre accade a chi spia e dallo stretto della serratura scorge solo un briciolo della verità, lo Sconosciuto si è costruito un’immagine completamente falsata della mia esistenza. E per restituirmela intendeva estorcermi denaro.
Dannata burocrazia - Ho ricevuto una chiamata anonima il giorno dopo aver smarrito il cellulare. Una voce straniera mi chiamava per nome, mi trattava quasi come se mi conoscesse da sempre, e in qualche modo era davvero così. Mi hanno spiegato che cose del genere accadono spesso: si sottraggono effetti personali, poi si chiedono soldi per ridarli ai legittimi proprietari. Si chiama «cavallo di ritorno». La tentazione immediata è stata quella di accettare: bastardo, ridammi i miei amici, i miei affetti, i miei pensieri, i miei momenti felici. Si sarebbe disposti a pagare qualsiasi cifra. Sono andato al commissariato più vicino a raccontare l’accaduto: ero un uomo nudo che va a denunciare il furto degli abiti, ma nel frattempo nessuno gli offre uno straccio per coprirsi. L’agente batteva sui tasti e avrei voluto gridargli «per Dio, si sbrighi, ma non capisce la gravità della situazione?». Il ratto della mia vita era ordinaria amministrazione, burocratica rassegnazione. Inevitabile, per chi ogni mattina affronta decine di casi identici. Ma a me avevano rubato uno spicchio di anima, come facevo a spiegarglielo?
L’incontro - Poi lo Sconosciuto ha richiamato. Dopo una notte insonne in preda all’ansia, ecco comparire il numero di una cabina telefonica: «Allora, ci incontriamo? Porta i soldi». Fisso l’appuntamento e chiamo la Polizia, eseguo le istruzioni ricevute in commissariato e nel frattempo mi trituro il fegato: e se poi gli agenti se lo fanno scappare? E se non riescono a recuperare il telefono? C’è un finto me stesso che gira per la città, sapranno fermarlo? Con il denaro del riscatto in tasca - qualche centinaio di euro - mi avvio verso il luogo dell’incontro col mio ricattatore. La pelle mi è diventata quasi trasparente, una nuova evoluzione del pallore. Poi vedo uno degli agenti che mi assisteranno. Anzi, prima vedo un paio di pettorali, qualche secondo dopo arriva il poliziotto. Indossa i jeans e una polo da cui esplodono i bicipiti, ma non ne avrebbe bisogno, tanto è coperto di tatuaggi. Penso che forse mi hanno mandato uno di Distretto di Polizia, un attore, mica uno sbirro vero. Invece è proprio un agente. Sta con un collega dal collo tatuato, hanno gli occhi caldi, placidi. Mi spiegano come comportarmi, la fanno sembrare la cosa più normale del mondo: un tranquillo pomeriggio di estorsione. So che di loro mi posso fidare. Sento che questi sbirri capiscono la gravità di quanto mi sta accadendo: se dovesse cadermi la vita dalle tasche ancora una volta, vorrei che capitasse tra le braccia di pietra di questi agenti con gli orecchini. Sono la sesta sezione della Squadra mobile di Milano capeggiata da Alessandro Giuliano (è il figlio di Boris Giuliano, il capo della Mobile di Palermo freddato dal mafioso Leoluca Bagarella). Si chiamano «Falchi» e intorno a me, mentre aspetto lo Sconosciuto che mi ricatta, ce n’è un piccolo e invisibile stormo.
Arrivano i «falchi» - Il primo appuntamento va a vuoto. Lo Sconosciuto non si fida, mi richiama da una cabina e vuole che mi sposti ancora, pretende che scenda nella metropolitana, dove sarebbe difficile bloccarlo. Tenta di spaventarmi, dice di aver visto gli “amici” che mi scortano, sta mentendo. Mi chiede di avanzare di due fermate. Raggiungo, sempre dall’esterno, il luogo del secondo abbocco. Eccolo, finalmente, l’uomo che ha la mia vita in tasca. Mi fa segno di seguirlo in una via laterale. Vuole i «suoi» soldi (ma dove diavolo stanno i pettorali dei Falchi, adesso? Non li vedo più). Estrae il mio Iphone, se lo palleggia fra le mani: i 137 grammi della mia anima. Tento di temporeggiare, ma si spazientisce: fuori la grana o vado via. Allora gli allungo il denaro e prendo dalle sue dita il telefono: un attimo infinito, un salto nel vuoto.
Numeri preziosi - Ecco, ho lasciato i soldi, sto cadendo. Ma sotto c’è la rete. In un istante appare una pistola nera con attaccato un uomo. Capelli grigi, fisico normale, volto ruvido di chi ne ha passate parecchie. Blocca lo Sconosciuto contro un muro, il suo collega gli allaccia i polsi. La strada si popola di strani individui con i distintivi e le manette. Uno ha lunghi ricci e occhiali, da poeta del Greenwich Village. Arrivano altri distintivi, altri jeans, altre magliette e altri muscoli. Manca giusto Bruce Willis, se no sarebbero al completo. Lo Sconosciuto ha paura, li prega di lasciarlo andare, adesso è la sua vita che hanno in mano. Lo portano in Questura, e lì rimarrà in attesa di essere tradotto in carcere. Adesso sono finalmente al sicuro. Qualche ora dopo, scoprirò che lo Sconosciuto aveva letto sulla mia rubrica alcuni nomi di personaggi famosi. Si era segnato sul telefono un vecchio cellulare di Lele Mora e il numero che compariva alla voce «Berlusconi»: era quello mostrato da Michele Santoro in diretta ad Annozero. Il Potere italiano secondo il mio ricattatore straniero.
PS. Il giorno seguente, questa vicenda è stata raccontata ai cronisti di nera milanesi, omettendo i nomi dei protagonisti. L’intervento di quei poliziotti straordinari, che chiunque dovrebbe incontrare per capire quali professionisti popolino le Questure; la mia angoscia e il mio piccolo dramma erano condensati in tre righe stringate, che quasi nessun giornale ha pubblicato. Dopo il peso, ho potuto anche conoscere il valore della mia vita: una breve in cronaca.
di Francesco Borgonovo pubblicato su Libero il 27 settembre 2011

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