Il tempo è ciò che l’uomo è sempre intento a cercare d’ammazzare, ma che alla fine ammazza lui.
Una manciata di ore, ed ecco il botto di fine anno con la tradizionale e un po’ tribale e selvaggia chiassata della notte di S. Silvestro (un santo certamente infelice per l’associazione a questa gazzarra notturna). A una certa distanza da quel momento, proviamo, invece, a interrogarci ancora una volta su questa realtà che aderisce alla nostra stessa pelle, il tempo, al quale ho assegnato una delle definizioni elaborate dal filosofo positivista inglese Herbert Spencer (1820-1903). Egli ricorre a un’espressione che è in molte lingue, «ammazzare il tempo». Nella frase si riflette l’angosciosa attesa di chi è immerso in un’esistenza infausta o di chi, annoiato, non trova più nessun sapore nel vivere. Alla fine, però, il tempo si trasforma in una mannaia che si chiama morte e, forse, in quel momento si recrimina perché il tempo è finito così presto.
Vorrei, però, riprendere questa locuzione ma da un’altra angolatura che è suggerita dallo scrittore americano Henry David Thoreau che, nel suo Walden o la vita nei boschi (1854), obietta: «… come se si potesse ammazzare il tempo senza ferire l’eternità!». L’idea è profondamente cristiana: nel tempo, che è l’ambito in cui è chiamato a operare, l’uomo prepara il futuro che sta oltre la frontiera della morte. Quindi, sporcare, sciupare e dissolvere le nostre ore è predeterminare il nostro destino ultimo. È ciò che Cristo esprime col simbolo del «tesoro»: «Non accumulate tesori sulla terra…, accumulate invece per voi tesori in cielo» ( Matteo 6, 19-20). E allora condividiamo la sapienza del Virgilio dantesco: «Perder tempo a chi più sa più spiace» ( Purgatorio III, 78).
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