Fenomenale e fenomeno, Giovanni Allevi . Tanto più attaccato dai vip delle note (memorabile il botta e risposta con Uto Ughi) quanto più amato, specie dai teen ager. Provocatorio e convenzionale, a partire dai riccioli. Grintoso contro quelli che liquida come accademici e passatisti anche adesso che è entrato nell'iperuranio della fama, suonando l'Inno di Mameli nelle celebrazioni ufficiali del 150 dell'Unità.
Così, sistema la sua weltanschauung in un volumetto da ieri in libreria per Rizzoli. Si intitola «Classico Ribelle» e nel risvolto di copertina declama il suo «tricalogo»: «Cercare il vero e il bello resistendo alle insidiose certezze della tradizione; commettere un simbolico parricidio dei grandi del passato per affermare l'unicità del proprio tempo; mettersi in gioco fino in fondo ogni giorno».
Maestro Allevi, rieccoci col parricidio. Non le basta l'apoteosi di aver diretto Fratelli d'Italia davanti al Capo dello Stato?
Guardi, non è per cocciutaggine. Il mio scontro con l'accademia è fecondo ancorché continuo. E replica gli innumerevoli scontri simbolici che ciascun giovane nel suo ambito sostiene. Mi scrivono poeti, architetti, compositori, pittori. Ciascuno sente il peso di un mondo vecchio che li costringe a limitare il proprio modo espressivo.
Però anche certi giovani la contestano. Nel suo libro racconta di studenti del Conservatorio di Milano che vedendola passare le hanno urlato: «Allevi, vattene. La tua musica fa schifo».
Lo sa quando è successo? Mica agli inizi della mia carriera. È successo pochi mesi fa. Significa che Giovanni Allevi è ancora un problema, nel mondo accademico non è ancora stato assimilato. Anche questo è il motivo del mio libro. Mi è servito a sistematizzare definitivamente il mio pensiero. Non polemico, ma propositivo.
Lei è laureato in filosofia. Crede che i pensatori aiutino a far musica?
Sì, e lo affermo con gioia. In particolare Hegel. Ribadisce l'unicità del presente nei confronti del passato. Lo spirito del tempo è il mutamento. Nel versante artistico significa che non è vero che è stato scritto tutto. C'è un'epoca che va raccontata.
È il suo "nuovo rinascimento"?
È l'operazione di recuperare forme della tradizione classica come la sinfonia, il concerto per violino e orchestra e inglobare in queste strutture materiali ritmici o melodici intorno a noi in questo momento. È la mia sfida. Ma per la Casta degli Accademici è una bestemmia e io sono un alieno.
C'è casta e casta. Di quella dei politici si parla molto.
Con la politica non mi mischio. La politica è attività di parte e la dialettica è sempre positiva. Ma la musica parla al cuore dell'umanità. Il piano si suona con la destra e con la sinistra. E si sta seduti al centro.
Farebbe l'insegnante di musica?
Per anni sono stato supplente alle scuole medie di Milano. Ho capito di essere negato per questo mestiere. Io, ribelle, non sopporto di dire agli altri che cosa devono fare.
Chi mette nel suo Olimpo di musicisti?
Rachmaninov per la passionalità, Chopin per il rigore della scrittura, Vivaldi per la solarità, Mozart per la semplicità.
Come ha arrangiato l'Inno di Mameli?
Non l'ho riarrangiato, l'ho diretto nella versione più tradizionale e radicale che ci sia. Ho solo accentuato l'interpretazione gioiosa. Però il mondo accademico mi ha accusato di averlo stravolto. E ne è scaturita la solita petizione contro di me.
Che ne pensa di Riccardo Muti?
È stato l'unico dei grandi che ha avuto l'umiltà di venire ad ascoltare un mio concerto. Un grande gesto. Ci siamo stretti la mano. Si è fatta un'idea della mia musica perché c'era, non per sentito dire. È pur vero che l'artista deve proporre la propria opera col massimo della convinzione e senza curarsi dei giudizi. Ma se Muti mi dovesse bocciare, andrei in depressione.
Pubblicato su il Tempo il 08 settembre 2011
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