domenica 6 marzo 2016

Politica come testimonianza: Cristo Re

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Ecco quale è la politica della testimonianza che Gesù ci insegna e che lo porterà alla testimonianza fino alla morte, senza scendere dalla Croce, senza compiere il miracolo più grande e più forte che tutti si aspettavano ma compiendo quello ancora più grande che nessuno si aspettava.
Siamo nel contesto della passione e precisamente durante il processo subito da Gesù davanti a Pilato. Il re dell’universo dunque è sottoposto a un giudizio che, sappiamo, si conclude con gli oltraggi e la morte.
Forse, ancora più che in altri momenti storici, credo che questo sia il tempo in cui interrogarci sul modo in cui Gesù ha inteso la regalità e quindi l’esercizio del potere considerato il più alto nel mondo antico.
Nei versetti immediatamente precedenti si racconta della consegna di Gesù a Pilato ad opera dei Giudei. Giovanni costruisce questa scena sottolineando la menzogna che guida le parole dei capi del popolo per poter raggiungere il loro scopo. Nel nostro brano la scena ha come protagonisti solo Gesù e Pilato e si svolge all’interno del pretorio: al riparo da qualsiasi pressione esterna si può dire e fare la verità, ci si può confrontare con essa. Pilato è il giudice, ma di fatto che colui che davvero dice e fa la verità è l’imputato. Alla fine Pilato uscirà di nuovo dal pretorio e gli eventi riveleranno il tentativo, apparentemente vittorioso della menzogna, di sopraffare la verità.
Il dialogo tra Gesù e Pilato è incentrato sul tema della regalità e della verità che si illuminano a vicenda: si tratta della deposizione del re al suo processo, attestante la verità. La domanda iniziale «tu sei il re dei Giudei?» suona improvvisa: i Giudei infatti non avevano esplicitato l’accusa, formulando a Pilato una richiesta generica, anche se allusiva del reato. Il lettore dunque è improvvisamente posto a confronto con questo titolo attribuito a Gesù. Gesù non risponde alla richiesta di Pilato, ma pone lui stesso una domanda: l’interrogato si trasforma in colui che interroga, indicando così chi è colui che conduce davvero la discussione. È una domanda che intende fare verità nel cuore di Pilato, spingendolo a guardare da chi si faccia guidare nella considerazione degli eventi e nelle decisioni da prendere. Ma Pilato sfugge all’interrogativo e pone una nuova domanda sull’identità di Gesù «che hai fatto?». È una domanda soprattutto per il lettore, per tutti noi impegnati in politica.
Che cosa ha fatto Gesù per comparire davanti al magistrato romano? È l’invito a tornare indietro e ripercorrere la storia di Gesù narrata da Giovanni, cercandovi le ragioni dell’accusa, scoprendo la menzogna che ha portato Giuda prima e i capi del popolo poi a consegnare Gesù, e leggendo l’opera continua di Gesù per fare verità nel cuore degli uomini, fossero pure i suoi avversari.
Gesù, interrogato sulla regalità, deve difendere il suo operato come se fosse colpevole, come se avesse commesso ingiustizie, e proprio perché interrogato manifesta la sua intrinseca debolezza. Egli è solo davanti a Pilato, i suoi sudditi non ci sono, qualcuno lo ha tradito, qualcuno lo ha rinnegato, tutti sono fuggiti, nessuno testimonia a suo favore, il suo è un potere disarmato.
È anche un potere disarmante. Lo rivelano le sue stesse parole: il suo regno non si fonda sui poteri del mondo e non si ispira ad essi, non fa ricorso alla violenza e all’arroganza per sopravvivere, accetta piuttosto la disfatta fino alla morte, accetta il rischio di scomparire pur di non tradire la sua qualità. In questo è disarmante: fa venire alla luce la logica di violenza e di dominio del potere smascherandone la menzogna e dunque indebolendoli della forza di cui si nutrono.
Gesù è re per rendere testimonianza alla verità: la sua regalità è sottomessa totalmente alla verità per la quale acconsente perfino a morire.
Se, seguendo l’invito dell’evangelista, abbiamo ripercorso il suo racconto, riconosciamo che davvero Gesù è colui che è venuto per rendere testimonianza alla verità, cioè per attestare quale sia l’intenzione di Dio nei confronti degli uomini. Ora, davanti a Pilato sembra che non ci sia nessuno che ascolta la sua voce, che dimostra di essere dalla verità. La regalità di Gesù, la sua qualità, la sua missione paiono sconfitte, sopraffatte dal fallimento, dalla menzogna che ha reso gli uomini incapaci di ascoltare e riconoscere la verità. Ma paradossalmente proprio in questa realtà contraddittoria risplende la regalità di Gesù. Egli è il re perché difende, a costo della sua vita, la vita dei suoi, è il re perché la sua morte segna l’esaltazione dell’uomo che si riconosce figlio e riceve umilmente se stesso dal suo Dio. L’intenzione del Padre, la verità, è quella di amare gli uomini fino alla fine, fino all’estremo. Gesù è re perché compie questa intenzione fino in fondo, accetta di morire pur di non tradirla o di non camuffarla e renderla ambigua e agendo così manifesta di essere lui la verità stessa del Padre.
“La regalità di Gesù coincide con la sua identità di Figlio e inviato del Padre, perciò egli può dire che il suo Regno non è di questo mondo o non è di quaggiù. Dunque il criterio di legittimazione del Regno di Gesù non può essere il diritto di far uso della forza come per i poteri o regni mondani, ma la testimonianza resa alla verità. La “verità”, nel linguaggio giovanneo, coincide con Gesù stesso, il Figlio e l’inviato del Padre che rende presente e comunica in modo pieno e definitivo il suo amore salvifico. Dunque anche l’appartenenza al regno di Gesù dipende dall’adesione interiore alla sua parola di inviato di Dio. Ma nella prospettiva paradossale giovannea la regalità di Gesù come suprema testimonianza resa alla verità si attua nello scenario del mondo. Parimenti anche i discepoli di Gesù che non obbediscono alla logica mondana, sono chiamati a rendergli testimonianza nel mondo con la forza dello Spirito di verità, il paraclito-avvocato”.

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