mercoledì 11 maggio 2011

Grazie Elvira Terranova, hai ridato il senso al nostro lavoro di giornalisti

Le onde della cronaca a volte incontrano lo tsunami dell’umanità e da questo scontro ritorna a galla il vero senso di una professione e, insieme, della vita stessa. Ormai i 167 chilometri di mare che separano il nord Africa dal Sud Europa (la Tunisia da Lampedusa) sono ricchi di immagini, video, storie, racconti belli e brutti, vivi e morti, figli nati sui barconi dei migranti e figli morti cadendo in acqua e nessuno a tendere loro la mano. Ormai quei 167 chilometri raccontano più di tutti, il grande male del nostro secolo, l’indifferenza (come diceva Madre Teresa di Calcutta) e l’accoglienza, il farsi prossimo che sta portando Lampedusa, ed i suoi cittadini, ad essere candidati al premio Nobel per la Pace anche per ridare senso al Premio stesso.
In una delle prime notti di Maggio un altro barcone è stato avvistato al largo delle coste italiane e, dopo essere stato prontamente affiancato dai nostri militari, è stato condotto in salvo, o quasi. A dieci metri dalla salvezza che prende nome con l’ansa rocciosa di Cavallo Bianco l’imprevisto guasto al motore ed il mare forza quattro stavano per vestirsi, ancora una volta, con l’abito da morte per inghiottirsi, davanti ai soccorritori pronti sul molo, quei 527 migranti che avevano percorso quasi tutti i 167 chilometri. Ma la morte non sempre ha il sopravvento e l’abile mossa del Capitano alla guida del barcone, assieme alla prontezza degli uomini della Protezione Civile, della Croce Rossa, dei Carabinieri, dei vigili del Fuoco, dell’Oim, dei Finanzieri e di altri ancora e di tanti cittadini, hanno fatto sì che il vento della vita non solo soffiasse sulle loro teste ma si tramutasse in aiuto concreto e coraggioso e la morte è stata rigettata indietro quando anche l’ultimo dei 527 migranti è stato passato, di mano in mano, di abbraccio in abbraccio, dalla catena umana sul molo commerciale: erano le quattro del mattino. La cronaca racconta di questa catena umana creatasi spontaneamente e che ha tratto in salvo giovani, vecchi, donne incinte, una decina di bambini tra pianti, urla e poi grida di gioia e preghiere ognuno al proprio Dio. Ma la cronaca va oltre e ci trasmette anche la storia nella storia, una delle tante, che è quella di Elvira Terranova, giornalista dell’Adnkronos, pronta a registrare e scattare fotografie ma, appena il barcone si è incagliato, non ha esitato un attimo a chiudere tutto e gettarsi anche lei in acqua per formare un anello, uno dei tanti, di quella catena umana. “Quando ho visto quella scena – racconta Elvira – il cuore mi è arrivato in gola: 500 persone rischiavano di annegare a pochi metri dalla salvezza. Ho chiuso il taccuino e l’ho messo in tasca, ho appoggiato a terra la digitale e d’istinto mi sono gettata in acqua per diventare un anello di quella grande catena umana. C’erano donne col bambino che si buttavano in acqua dalla barca. I bambini sparivano tra le onde, perché le mamme perdevano il contatto. Ne ho presi alcuni e li ho riportati a riva. Ho cantato una canzoncina che mi cantava mia madre per farli stare buoni. Di uno, di Severine, un bimbetto di appena quattro mesi, non si trovava la mamma. Mi sono messo a cercarla. Ho visto una donna che piangeva disperata. Anche lei ci ha visti e ha urlato: ‘My baby’! Non dimenticherò mai i suoi occhi, durante l’abbraccio col figlio. La mattina dopo sono andata a trovare il mio Severine – dico mio perché mi sono affezionata – l’ho coccolato”. Siamo ormai troppo abituati ad un giornalismo d’assalto che entra nelle case delle persone, spia dall’antibagno quello che succede, rovista nell’immondizia fuori dai Tribunali, rovista nel dolore di padri e madri a cui viene tolto un figlio, quindi un giornalismo che non solo è spettatore ma diventa anche motore e propagatore in negativo di quello che succede. Non ho mai vissuto le stesse esperienze lavorative della collega Elvira perché non mi sono mai trovato in quelle situazioni ma che bello sapere che c’è una giornalista che non ha bisogno dello scatto in più per prendere un premio od una pacca sulla spalla dal suo direttore ma preferisce diventare protagonista in positivo, ovvero buttarsi nella notizia, perché la riconosce come vita di un prossimo da aiutare e, mentre scrive la Storia registra quello che vive, con la mente, per poi raccontarlo. Che bello sapere che non ci sono solo guardoni del macabro tra i colleghi ma c’è anche chi, davanti ad una vita che si perde, sa spegnere il microfono e rivolgere un abbraccio per aiutare questa vita a ritrovarsi: capitasse anche in altri naufragi sarebbe davvero un quotidiano migliore. Grazie Elvira perché con quel gesto spontaneo tu sei entrata nella Storia vivendo la tua storia ma a tutti hai ribadito il vero senso del nostro mestiere che è anche quello di raccontare la vita degli altri avendone condiviso anche un solo contatto e non restando al riparo di alberghi lussuosi mentre le bombe cadono li vicino ed uscire, più tardi, a fotografare cadaveri. Grazie Elvira perché a pochi metri dalla salvezza noi tutti ci siamo buttati con te e ci siamo salvati con loro, migranti tutti su questa terra, naviganti tutti in questo mestiere, tutti noi in quell’urna d’acqua per sentirsi docile fibre dell’universo.
Giorgio Gibertini


2 commenti:

Anonimo ha detto...

nostro?

Buongiorgio ha detto...

Nostro certo, nostro come giornalisti!

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