Sarajevo è distesa lungo una stretta vallata, tagliata da un rapido fiume. Una città tranquilla che non sembra sia stata, all’inizio e alla fine del secolo scorso, l’epicentro di due terribili guerre: una mondiale, una più locale.
Eppure, la memoria degli ultimi scontri è ancora viva nella coscienza della gente. E, nonostante i restauri, i segni del conflitto sfregiano strade e palazzi. Sarajevo è una città ferita, simbolo di ogni città ferita. Gerusalemme, New York (ieri era l’anniversario dell’11 settembre), e poi le città della Siria. E a conclusione dell’Incontro delle religioni promosso nella capitale della Bosnia-Erzegovina dalla Comunità di Sant’Egidio, assieme al cardinal Vinko Puljic, lo ha detto bene Andrea Riccardi: «Vivere insieme è il futuro. La storia del Novecento è segnata da Sarajevo.
Dire pace a Sarajevo acquista un valore impegnativo».
Dirlo in questa città è la sfida che hanno inteso vivere in tre giorni di confronto uomini e donne di religioni diverse, consapevoli dell’occasione offerta di avanzare lungo la strada della riconciliazione e della convivenza. Le quattro comunità religiose bosniache (musulmani, serbo-ortodossi, cattolici, ebrei) si sono riunite insieme, in un unico evento, per la prima volta dalla fine della guerra del 1992-95. E questo è già un fatto.
Vent’anni dopo un conflitto che ha coinvolto le religioni, Sarajevo si propone come un paradigma. Di quel che può accadere quando ci si divide. Ma anche di quel che può avvenire quando ci si unisce. Da questa città-martire a causa della rottura del vivere insieme sorge oggi uno spirito d’incontro. Significative le parole di Mustafà Ceric, leader dei musulmani bosniaci: «Le vittime dell’ultima guerra meritano il nostro sincero impegno per la pace e la riconciliazione». Storica la presenza del Patriarca serbo-ortodosso, Irinej, alla liturgia cattolica di sabato scorso. Tornava a Sarajevo dopo vent’anni e come primo suo gesto ha parlato nella cattedrale cattolica, superando antiche distanze.
Nell’appello finale dell’Incontro si legge: «Si sviluppano pericolose culture del risentimento, dell’odio e della paura». Ed è per questo che «bisogna avere un coraggio nuovo di fronte alle difficoltà», «occorre avvicinarsi nel profondo», coscienti che «la guerra è un grande male e lascia un’eredità avvelenata». Sono parole che fotografano bene il clima che ha percorso le giornate di Sarajevo. Oggi è molto più evidente di ieri l’assunzione di responsabilità da parte delle religioni nel mondo globale. In questi giorni ciascuno ha ritenuto giusto farsi operaio di un cantiere comune.
Da Sarajevo si è guardato al mondo.
Sono vent’anni dalla firma della pace in Mozambico, mediata da Sant’Egidio, il cui processo iniziò proprio in uno degli incontri nello 'Spirito di Assisi'. È dunque evidente che – come ha detto monsignor Matteo Zuppi – «pregare per la pace è seminare quando è inverno». E quanto è stata forte la preghiera per la pace delle religioni che si è levata in tutti questi anni a partire da Assisi nel 1986. La preghiera, la speranza, l’incontro.
Sono l’unica strada possibile di fronte a contesti compositi o bloccati, se non ci si vuole arrendere e lasciar perdere. Occorre entrare pazientemente nella complessità della storia e dei problemi per trovare soluzioni alle tante crisi del nostro mondo. Come si è cercato di fare in questi giorni a Sarajevo. La realtà è complessa, la gente spaesata, tanti rischiano di cercare la propria identità nella violenza.
Davvero Sarajevo può essere un paradigma del nostro tempo. Lo è stato nel passato, nel male. Può esserlo in un futuro di convivenza, nel bene.
Come evidenziarono i giudici al processo celebrato nel 1914 contro gli assassini di Francesco Ferdinando, che diede il via alla prima guerra mondiale, quelle due pallottole esplose sul lungofiume uccisero milioni di uomini. La speranza è che le parole pronunciate in questi giorni a poche centinaia di metri da quel luogo contribuiscano a costruire un futuro di convivenza e di pace per tutta la famiglia umana.
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