“La legalizzazione dell’aborto è contro la civiltà giuridica”, sostiene un Docente di diritto
Parla la professoressa Maria Pia Baccari Vari
ROMA, lunedì, 5 febbraio 2007 (ZENIT.org).- La legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza rappresenta “una via senza ritorno, lontana dalla civiltà giuridica”, sostiene la professoressa Maria Pia Baccari Vari, Docente di Diritto romano presso la Libera Università Maria S. S. Assunta (LUMSA). Prendendo spunto dal referendum per la legalizzazione dell’aborto che si svolgerà l’11 febbraio in Portogallo, la professoressa Baccari ha voluto sottolineare in una intervista a ZENIT la necessità che “il popolo portoghese non commetta l’errore compiuto dal popolo italiano sintetizzato nella frase ‘io non lo farò mai, ma non posso incidere sugli altri’”. Secondo la docente di Diritto romano “questa posizione è, infatti, una sciocchezza ed un falso altruismo e soprattutto significa non cogliere la peculiare logica della partecipazione diretta alla res publica. La posizione corretta è, invece, la seguente: ‘se tu non lo faresti mai, devi votare NO anche per gli altri’. Tutto ciò che non faresti per il tuo bene è ciò che tu devi volere anche per gli altri”.
La Baccari ha detto a ZENIT che “si deve avere poi ben presente che un fatto illecito, anche se ha il timbro di legalità, non diventerà mai giusto (o Diritto inteso come ars boni et aequi). Quando si legalizza l’omicidio del concepito si è su una via senza ritorno, lontana dalla civiltà giuridica!”
La docente della LUMSA ha ricordato che “il diritto alla vita è il primo dei diritti dell’uomo: si tratta di un diritto inalienabile per lo sviluppo di ogni popolo libero e sovrano: ‘il diritto dei diritti, la libertà delle libertà’”.
Sempre a questo proposito, ha poi ricordato che circa l’interruzione volontaria di gravidanza, Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, padre costituente e servo di Dio, scriveva: “L’aborto non è soltanto l’uccisione di un nascituro ma uno sconvolgimento nel piano della storia”.
In questo contesto, la Baccari è convinta che “il Portogallo dicendo NO al referendum sull’aborto sarà faro della civiltà” perché così si opporrà allo “sbriciolamento dei principi giuridici fondamento di libertà elementari”.
Circa la legittimità e la generalità della battaglia a favore della vita, la docente di Diritto romano ha menzionato le parole del filosofo “laico-socialista” Norberto Bobbio, secondo cui “il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere”; “mi stupisco che i laici lascino ai credenti l’onore di affermare che non si deve uccidere”.
Per quanto riguarda il diritto alla vita e l’opposizione giuridica all’aborto la Baccari ha ricordato che “il diritto romano difendeva la vita umana fin dal concepimento” e che lo stesso La Pira in un articolo pubblicato nel 1976, richiamava il principio proprio della giurisprudenza romana del tempo augusteo, codificato nel Digesto (opera che fa parte del Corpus iuris di Giustiniano del VI secolo d. C.) secondo il quale “il concepito già esiste come persona umana”. Infatti, “nella terminologia della tradizione romanista, da Gaio (giurista del II secolo d. C.) al Codice civile argentino, il termine ‘persona’ viene usato anche in riferimento al concepito”, ha aggiunto la docente della LUMSA. “Nel Digesto – ha spiegato ancora – si parla del concepito nel titolo V del I Libro, sotto la rubrica ‘La condizione degli uomini’. Ivi sono collocati due passi sul concepito definito semplicemente qui in utero est (colui che è nell’utero) e vengono fissati due principi: in uno si dice qui in utero est esiste, (è in rerum natura) e nell’altro qui in utero est è sempre considerato come se fosse nato (in rebus humanis esse) quando si tratti del suo vantaggio (commodum)”.
“Nello stesso Digesto – ha continuato la Baccari – è richiamata una legge emanata nell’81 a. C., che disciplina gli omicidi e dispone la pena dell’esilio per la donna che abbia ‘volontariamente’ abortito. Mentre, nelle ultime pagine del Digesto, Giustiniano, in una sorta di piccolo vocabolario giuridico (de verborum significatione), afferma l’esistenza autonoma di qui in utero est spiegando che ‘è da comprendersi’ (intellegere) che colui che è stato lasciato nell’utero, c’è realmente al tempo della morte”.
In questo contesto era garantita dal Diritto romano la difesa del concepito, il diritto alla vita, il diritto di cittadinanza e il diritto agli alimenti. “Si può infatti notare – ha continuato la docente di Diritto romano – che qui in utero est è considerato avente una ‘vita autonoma’ rispetto alla madre: una legge regia (753-510 a. C.) vieta infatti di seppellire la donna morta in stato di gravidanza, prima che sia estratto il partus”. La Baccari ha ricordato che secondo la stessa legislazione “l’esecuzione della pena capitale contro una donna incinta deve essere differita ad un momento successivo al parto. Una donna incinta non può essere sottoposta a interrogatorio né può essere torturata o condannata a morte. L’accusa di adulterio contro la donna incinta deve essere differita affinché non si causi alcun pregiudizio al nato. Il figlio di un senatore, benché il padre fosse morto prima della sua nascita (o anche privato del suo grado in vita), conservava sempre tutti i diritti che spettavano ai figli di un senatore”. Anche relativamente alla cittadinanza lo status di libero e cittadino veniva attribuito prendendo in considerazione il momento del concepimento ovvero, se più favorevole, qualunque momento tra concepimento e nascita.
“Qui in utero est – ha spiegato la Baccari – riceve una tutela giuridica per l’interesse attuale e immediato al nutrimento, oggi diremmo: per un diritto agli alimenti. L’esigenza di garantire il sostentamento al nascituro è primaria, benché possa esservi incertezza sulla posizione giuridica di colui che nascerà (filia, plures filii, filius et filia): è meglio che siano comunque dati gli alimenti, anche a chi sia diseredato, anziché far morire di fame colui il quale non sia invece diseredato. Ulpiano ribadisce questo principio riguardante la rilevanza dell’alimentazione aldilà di ogni incertezza: («quia sub incerto utilius est ventrem ali»)”.
Quanto all’interesse della donna, il Diritto romano tratta in modo particolare della dignitas della donna ed anche, si direbbe, della sua “qualità della vita”.
La professoressa Baccari ha sottolineato che “il pretore romano crea l’istituto del curator ventris per tutelare la donna. Egli deve principalmente provvedere agli alimenti e alle altre necessità non solo del figlio, ma anche della madre. Più precisamente deve dare alla donna da mangiare, da bere, il vestiario e un tetto dove abitare (cibum, potum, vestitum, tectum) anche al fine di tutelare la dignità di lei. Anzi il mantenimento deve essere commisurato anche alla dignitas della donna”.
Secondo il Diritto romano la difesa della vita è interesse e difesa della res publica: quello dell’“aumento” del popolo (civitas augescens) è un principio ribadito sia nella giurisprudenza (Digesto) sia nella legislazione (Codice di Giustiniano).
I giuristi romani spiegano anche i motivi, concernenti non solo la familia e i parentes (genitori) ma anche e soprattutto la res publica, per i quali devono essere assicurati gli alimenti al concepito: persino rispetto al puer nato la causa del nascituro è più da favorirsi (favorabilior partus), poiché egli nasce non solo per i genitori, ma in verità anche per la res publica.
Per il Diritto romano la finalità della nomina di un curator ventris è anche quella di tutelare qui in utero est. Egli deve assicurare il rispetto delle modalità di adempimento delle prestazioni alimentari fino al momento della nascita.
Pertanto la nascita è presa in considerazione, soltanto come termine entro il quale si esaurisce il compito del curator ventris. Egli deve provvedere agli alimenti e alle altre necessità della madre e del figlio. Ed è per questo che la preminente difesa dell’interesse pubblico o, per meglio dire, l’esigenza di pubblica difesa dei tre interessi, rispettivamente della res publica, della donna e del concepito, impone una nomina da parte del magistrato del popolo Romano
La docente della LUMSA ha quindi spiegato a ZENIT come il Diritto romano punisse l’aborto con la pena dell’esilio, quando la donna “volontariamente” abortiva. Questa prima repressione pubblica dell’aborto si ha, in particolare, con una costituzione approvata dagli imperatori romani pagani di origine africana Settimio Severo e Antonino Caracalla.
E’ vero che il sistema giuridico romano era essenzialmente incentrato sulla familia e “saldamente accentrato intorno alla potestà del pater”; tuttavia tale assetto costituì il “primo e grande fondamento della salvezza della nazione”, come ebbe a dire Francesco De Martino, Segretario del Partito socialista italiano, difensore del diritto romano contro i nazisti.
Per la docente della LUMSA inoltre è importante un famoso brocardo medievale che recita: Conceptus pro iam nato habetur si de eius commodo agitur (il concepito si considera già nato quando è a suo vantaggio). “Esso è accolto in codici civili lontanissimi tra loro sia dal punto di vista geografico, sia dal punto di vista ideologico (Giappone, Cuba, Brasile)”, ha detto.
“Contro le semplicistiche affermazioni che il nascituro non sarebbe mai stato riconosciuto come ‘persona in senso pieno’ (United States Supreme Court) – ha concluso la Baccari –possiamo richiamare alcuni principi scritti da Ulpiano, giurista romano del III secolo d. C., riguardanti i motivi per i quali il nascituro deve essere alimentato”.
Ulpiano scriveva allora: “non dubitiamo che il pretore debba venire in aiuto anche del concepito, tanto più che la sua causa è più da favorirsi che quella del fanciullo: il concepito infatti è favorito affinché venga alla luce, il fanciullo affinché sia introdotto nella famiglia; questo concepito infatti si deve alimentare perché nasce non solo per il genitore, cui si dice appartenere, ma anche per la res publica”.
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