giovedì 12 gennaio 2012

Meno aborti in un anno: possiamo farcela, da Avvenire

Che cosa si potrebbe fare nel 2012 per tutelare la vita? Nel numero di è vita di giovedì scorso abbiamo stilato un’agenda di impegni realistici.
I destinatari? Chiunque sia convinto che il rispetto della vita è il valore imprescindibile per costruire un futuro sufficientemente solido. Punto numero uno: far calare il numero di aborti.
Obiettivo possibile, come dimostrano i piccoli grandi progetti già attivi sul territorio. Un esempio è la Clinica Mangiagalli di Milano, dove dal 2004 al 2011 si è passati dai circa 2300 aborti a circa 1300. In generale, «per limitare il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza – spiega Basilio Tiso, direttore medico del grande presidio – sarebbe utile creare una rete di supporto con il territorio». Nell’ospedale milanese, infatti, l’impegno per la vita si fonda sul connubio tra pubblico e privato: all’interno della struttura opera un centro di accoglienza per le donne in difficoltà, sono disponibili gli assistenti sociali e gli psicologi dei consultori, ed è attivissimo lo storico Centro di aiuto alla vita guidato da Paola Bonzi. Accoglienza e supporto psicologico,
L’alleanza fra pubblico e privato, il supporto di psicologi e assistenti sociali, l’apporto del volontariato, la sfida formativa: ecco le vie per arginare le interruzioni volontarie di gravidanza, con l’impegno di tanti. Mettendosi accanto alle future mamme dunque, ma anche aiuto concreto e informazioni pratiche.
Quello dell’aborto è in realtà un nervo scoperto della nostra società, che fa già i conti con un forte calo demografico.
«Al di là di ogni considerazione etica e ideologica – puntualizza Giacomo Marramao, professore ordinario di filosofia teoretica all’Università Roma Tre – è del tutto evidente che l’aborto è un trauma».
Che si potrebbe prevenire promuovendo innanzitutto «misure sociali di sostegno materiale, ma anche sociale e culturale», e permettendo per esempio alla ragazze madri di portare avanti la gravidanza, senza che «questo comporti per loro né una forma di emarginazione sociale né tantomeno un peso drammatico per la propria esistenza». Oltre alle ragazze, l’altra fascia sociale che registra un alto tasso di Ivg è quella delle donne immigrate. «Una delle prime cose da fare – rimarca la giornalista e scrittrice Paola Tavella – è riconoscere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati. La maternità è un progetto per il futuro che riguarda non solo il sé ma la vita che viene, e non è una cosa semplice fare un figlio che non ha radici».
Ma a scegliere l’aborto, spinte spesso da problemi economici, sono ormai anche tante coppie italiane, come racconta Giorgio Gibertini, presidente del Cav di Roma. «Bisogna dare fiducia a queste mamme e papà e aiutarli facendo anche qualcosa di concreto». Serve però una «carità che sia anche intelligente: se le risorse, poche, che ci sono fossero investite di più nell’aiuto diretto alle mamme sarebbe già una soluzione». Per Giuseppe Noia, responsabile del Centro di diagnosi e terapia fetale del Policlinico Gemelli, è necessaria «una grande strategia di natura formativo-educazionale a livello sociale nelle fasce dove minore è la consapevolezza, ossia tra gli adolescenti, o minore è la conoscenza», cioè le immigrate. Molte Ivg si possono evitare «contenendo la paura» che assilla le mamme, per esempio di fronte al rischio di infezioni, o di malformazioni del feto.
«Noi ci stiamo riuscendo – prosegue Noia – attraverso le informazioni corrette che il Telefono Rosso e il day hospital del Gemelli forniscono quotidianamente». Su circa 5500 donne che nel 2011 hanno contattato il servizio della clinica ostetrica e ginecologica della Cattolica di Roma, l’84% hanno scelto di proseguire la gravidanza 1 . continua
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