La nonna non sta bene. Supera abbondantemente gli 80 anni ma gli ultimi cinque li sta passando in un letto di una casa di cura: l'alzheimer non le sta lasciando scampo ed assieme la tiene in vita e la uccide lentamente. La nonna ora è solo una testa fuori dalle lenzuola, due occhi sempre sbarrati, una lingua frenetica che cerca saliva anche fuori dalla bocca e qualche vocale in dialetto che ogni tanto a noi ricorda la parola "amore" ma spesso ci sembra che anche lei dica mamma. Mi vergogno di andare a visitarla così poco ed anche quel poco mi sembra nulla e fatico a venire via sapendo che passeranno per lei altre ore interminabili, giornate lunghissime, forse mesi prima di sentir raccogliere le sue vocali da qualche nipote.
Dicono che non morirà mai: qui dentro è ben curata, tutte le analisi a posto, temperatura esterna ed interna ideali per vivere a lungo. Così.
Ho in braccio il mio Matteo, poco più di un anno.
Ad un certo punto ecco la magia dell'incontro tra un neonato ed una persona malata incosciente. Matteo sembra rispondere ai vocalizzi di nonna con le sue di vocali e pure nonna sembra instaurare un dialogo fitto e sereno con lui: i due dialogano, parlano, sembrano comprendersi più di noi.
Per qualche minuto osservo attonito questo scena e mi viene in mente il richiamo evangelico: "se non tornerere come bambini" ma ancor di più mi risuonano le parole di quel professore che invitava a considerare gli ammalati in coma, o comunque in stato di incoscienza, come dei neonati: "i neonati - diceva - non sappiamo cosa pensano, cosa vogliono dire eppure ci fanno tenerezza e non li uccidiamo perchè sappiamo che sono vivi: ecco, così le persone in coma vanno considerati come loro".
La vedo poco la nonna di Acquasanta ma quella manciata di minuti sono sempre un pugno alle mie certezze, alle mie domande, al mio star bene però mai mi ha sfiorato il desiderio di "farla fuori": come potrei pensarlo ora dopo il dialogo fitto con mio figlio Matteo?
Giorgio Gibertini Jolly
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