sabato 19 novembre 2011

La fortuna di essere una schiappa


Un padre, vedendo il figlio dodicenne rientrare dall' allenamento ancora una volta in lacrime per la mancata convocazione alla partita della domenica, si decide a chiedere spiegazioni all' allenatore, il quale senza giri di parole risponde che il ragazzo non può far parte dell' organico perché è in sovrappeso.
Accade a Livorno, ma potrebbe accadere in una qualsiasi città di questo Paese malato. Il fatto viene segnalato al Tirreno da una lettera del genitore che, omettendo per ovvi motivi il nome della squadra, si interroga sulle finalità educative di un simile ambiente sportivo. In coda al dibattito interviene anche il vescovo Simone Giusti con una provocazione che è impossibile non raccogliere. «Mi sto adoperando - afferma - per rilanciare gli oratori in città. Penso soprattutto a quei ragazzi che rischiano di restare tagliati fuori dallo sport perché non hanno le capacità o anche solo l' interesse di dedicarsi a praticarlo in modo agonistico. Sogno una squadra di schiappe». Può il nostro sport, la nostra società, accettare una squadra di schiappe? Il calcio è un bellissimo gioco che ha perso da tempo la sua poesia diventando il luogo in cui meglio si esprime lo spirito di un' umanità che ha smesso di giocare. Nell' ottica sempre più pressante di un mondo che esige alte prestazioni, anche una piccola scuola-calcio assume la postura produttivista di fabbrica di calciatori, dimenticando i principali valori su cui è nata: il divertimento, l' aggregazione, la pratica di un' attività che è al contempo valvola di sfogo e scuola di vita, e poi, di nuovo, il divertimento. Perché scalmanarsi dietro a un pallone è un diritto di tutti i ragazzi, anche di quelli che non continueranno in prima squadra e non diventeranno goleador di serie A e nemmeno mediocri terzini semiprofessionisti, ma semplicemente smetteranno tra un paio d' anni e si dedicheranno agli impegni - dovrei dire sfide? - che già li aspettano fuori dal rettangolo verde. Ovviamente si gioca per vincere, ed è giusto che lo sport mantenga la sua fisionomia competitiva, ma ciò che più salta agli occhi in questa vicenda non è il risvolto agonistico, bensì quello relativo agli standard fisici (un preadolescente con tre chili di troppo) e alla filosofia professionalizzante che li sottende. Un malinteso concetto di serietà - qui non si scherza, qui si fa sul serio - induce ragazzini di dodici anni a pensare alla scuola-calcio come al primo livello di selezione in vista di una carriera. L' immaginario nobile del gesto sportivo viene ribassato sulla prospettiva più consona al pragmatismo odierno, quella di ottenere un impiego prestigioso e ben remunerato. Il calciatore come il cantante di X Factor, come la velina: il modo più concreto di una gioventù senza troppi grilli per la testa per entrare gratis nei locali e comprarsi un appartamento a Formentera. Giocando nel cortile di casa sognavamo di essere i nostri eroi. Io ero Johan Neeskens, il magico regista dei tulipani. Sapevo di non esserlo, ma ciò non m' impediva di urlarlo a pieni polmoni mentre accennavo goffi dribbling tra gli avversari, né m' impediva di tornare a fare i compiti a fine partita, la maglietta di sotto appiccicata alla schiena, la mente lucida come i sassi di un torrente. Non ci credevamo davvero: sognavamo in grande, tutto qui. Sognare, come giocare a calcio, non era un sistema laborioso per organizzarci il futuro, era divertirsi, il modo più sano di dissipare il tempo. Ora, in un mondo dove ogni gesto è finalizzato e le energie mentali di chi lo compie sono quasi tutte assorbite dai calcoli per stabilire l' entità del tornaconto, anche gli allenatori delle scuole-calcio hanno smesso di giocare. Ora formano piccoli cazzuti ragionieri del pallone: stai coi piedi per terra, lotta a testa bassa e il tuo tesserino aumenterà di valore. Spesso anche i genitori sono in linea con questa filosofia: «Rompilo!» è stato l' incitamento che mi è capitato di sentire a una partitella rionale. I ragazzini meno fortunati ci credono, hanno smesso di sognare e ci credono davvero. Rincorrono l' avversario e cercano di romperlo, anche se i loro tesserini, salvo rarissime eccezioni, diventeranno presto carta straccia negli archivi delle società sportive. I ragazzini più fortunati invece smetteranno di crederci in tempo. Grazie ai loro corpi meno adatti cresceranno meglio e torneranno a divertirsi. 

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