sabato 28 aprile 2012

Pupi Avati "Il mio Matrimonio tra i figli di Peppone e Don Camillo"


Un grande tavolo a ferro di cavallo, al centro gli sposi: lei, Micaela Ramazzotti, protagonista di Posti in piedi in Paradiso di Verdone, i capelli biondi pettinati a onde che sfuggono dal piccolo velo bianco, lui, Flavio Parenti, fidanzatino dell’ultimo film di Woody Allen, in abito blu e cravatta dal nodo stretto stretto. Intorno i parenti, tanti. Molti attori noti: Andrea Roncato, Mariella Valentini, Valeria Fabrizi, Katia Ricciarelli, e poi il nipote di Silvio Orlando Francesco Bredi, il figlio di Achille Togliani, Adelmo.
Un pranzo un po’ improvvisato, dentro un capannone di Sasso Marconi, vicino Bologna. Tutti sembrano allegri, quando il fratello della sposa, di forte fede comunista, polemizza su borghesia e proletariato per provocare il fresco sposo della sorella, un tranquillo democristiano, finendo per arrivare alle mani mentre la zia Katia Ricciarelli grida: «C’è la torta!» per allentare la tensione. A Cinecittà, Pupi Avati, il più prolifico e fedele dei nostri registi, gira Un matrimonio , film per la Rai di 600 minuti, così vuole che sia definito, in onda nella prossima stagione, una storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, vista attraverso la vita di una coppia, dei figli, dei nipoti, degli zii, dei cugini, degli amici. E’ la prima volta che Avati lavora per la tv e ne è felicissimo. «Noi autori l’abbiamo sempre guardata con supponenza. Io per primo. Ho capito, invece, che non è solo reality, che si può raccontare una bella storia anche in tv, che chi si occupa di fiction in Rai lo fa spesso con attenzione e amore. Sono un regista viziato perché ho sempre lavorato con mio fratello e temevo l’intrusione della committenza, è stata una scoperta pazzesca. Mai il cinema mi avrebbe permesso di misurarmi con l’ampiezza di un romanzo, la cura delle psicologie e dei caratteri minori. E poi oggi i film con una storia dal significato chiaro non sono più di moda. Non so come farò a tornare al cinema dopo questa esperienza straordinaria».
A cosa si è ispirato, Avati?
«Come sempre a me stesso: è l’unica vita che conosco bene. Ho pensato al matrimonio dei miei nonni e a quello di mio padre e mia madre e li ho uniti, sullo sfondo di Bologna, dove sono cresciuto. Mio nonno, ricchissimo, era un giocatore: perse tutto scommettendo sui cavalli. E quando non ebbe più una lira disse a mia nonna che pregava la Madonna di farlo morire al più presto, cosa che avvenne. Mio padre l’ho perso per un incidente quando avevo 12 anni: lasciò mia madre con tre figli da crescere e una strepitosa collezione di quadri dell’800 che abbiamo rivenduto. Ma c’ho messo dentro anche il mio matrimonio che va avanti da 48 anni con tutte le difficoltà del caso».

Pochi reggono tanto a lungo, soprattutto se uno dei due lavora nel cinema.
«Vero. Infatti sono profondamente riconoscente a mia moglie che con ostinazione mi ha aiutato e si è aiutata a superare i molti momenti in cui abbiamo pensato che sarebbe stato bene separarci. È una donna molto suscettibile, come spesso le meridionali, non le si può muovere il minimo rimprovero. Però è la persona che conosce meglio le mie debolezze e i miei pochi punti di forza, tanto che, adesso che sono vecchio, mi riconosco in lei. Ho faticato per conquistarla. L’ho corteggiata per quattro anni, poi, una sera, era il 18 febbraio 1964, le ho detto: ”Dammi almeno un bacio, oggi: è il mio compleanno”. Non era vero, ma lei me l’ha dato e ha perdonato quella bugia».

Che coppia è quella di Un matrimonio?
«Normale. Si amano, litigano, si lasciano, tornano insieme. Lei è di famiglia contadina che ha fatto i soldi, papà socialista e fratello comunista come allora. Lui di famiglia borghese che ha perso i soldi, benpensante e democristiana. Un po’ Peppone e Don Camillo».

I grandi fatti del nostro paese come entrano in questa vicenda familiare?
«Come sono entrati nelle famiglie di Bologna. Di traverso. C’è la ricostruzione e il boom economico che coincidono con la gioventù della mia coppia. Non c’è il terrorismo, ma c’è il movimento del 77, l’esplosione di una creatività giovanile anarchica, Radio Alice e uno dei figli che fugge via. C’è la bomba alla stazione di Bologna e la madre, ne sente il frastuono senza capire mentre torna a casa, addolorata perché vuole separarsi da un marito che non la capisce più. C’è il rapimento di Aldo Moro seguito dal fratello di lei che è diventato un giornalista di L’Avanti, il quotidiano dei socialisti che si battono, contro tutti, per la trattativa con le BR».

È la sua opera più personale?
«Lo sono tutte perché col cinema ho raccontato me stesso. Ma certo non capiterà mai più un’altra occasione per dire tutto di me e della mia famiglia. Quando a giugno finirò le riprese sarò come svuotato».
Da La Stampa

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