Seneca. Ripresi in mano questo autore, questo libro che scorsi una volta al liceo, per obbligo, e poi un’altra all’Università, per sostenere un esame. Lo lessi e rilessi e scoprii dentro qui la chiave di lettura del prepararsi a morire e con stupore notai che tutto era già stato scritto, che tutto avevamo già letto e come mai, anzi, perché mai non ne avevamo fatto tesoro? Capito Undici. Lo portai anche con me, quel tardo pomeriggio, da Francesco e cominciai a leggerglielo.
“Il mio discorso si rivolge a chi è lontano dalla perfezione, mediocre, ancora malato, non al sapiente.”
Hai trovato un testo che parla proprio di noi, mi sorrise Francesco, predisponendosi all’ascolto.
“Costui non deve camminare con cautela, passo passo, perché ha tanta fiducia in se stesso che non esita ad affrontare il suo destino né cederà mai di fronte ad esso. E neppure deve temerlo, perché considera tra le cose precarie non solo gli schiavi, la ricchezza e la posizione sociale, ma addirittura il suo corpo, i suoi occhi, le sue mani, tutto quando rende più cara la sua vita; perfino se stesso mette fra le cose precarie, e vive come se la sua esistenza gli fosse data in prestito, pronto a restituirla senza rimpianti, alla prima richiesta”.
Beh, che ne dici Francesco, già abbastanza esplicito “il ragazzo”, non credi? Quell’esistenza come data in prestito, che concetto difficile da far capire alla contemporanea società secolarizzata dove alcuni soloni del pensiero comune si esprimono anche sostenendo che sono padroni della propria vita. Oggi, il concetto di prestito è veramente difficile da far digerire, a meno che non si parli di banche ed interessi bancari. Anche agli amici si prestano le cose magari aspettandosi una bottiglia di Chianti al ritorno dalla gita. Ma non solo. Pronti a restituirla, senza rimpianti, alla prima richiesta. Era questa la prima richiesta o quante altre ne erano già passate? Ricordi Francesco, quella volta del tuo incidente stradale, quando d’improvviso ti sei trovato seduto sul ciglio della strada a guardare un’accartocciata lamiera simil tua macchina, fumante, in mezzo alla corsia e tu incredulo a chiederti: che cosa ci faccio qui? Eri pronto quel giorno a restituire la tua vita data in prestito? Ma era quella la prima chiamata o solo un’avvisaglia?
“Che cosa c’è di male a ritornare là da dove si è venuti? Vivrà male chi non saprà morire bene. Bisogna saper svalutare questa vita e metterla tra le cose di poco conto.”
“Vivrà male chi non saprà morire bene. Fermati un attimo Giorgio. Anzi, fermiamoci su questa frase cosa vuol dire?”
Ci volle proprio una lunga pausa, prima di riprendere il discorso: cosa voleva dire?
“Mi fai sentire come suona in latino?” mi chiese.
Mi prendi in giro? Vuoi mettermi in difficoltà? Sorrise.
Male uiuet quisquis nesciet bene mori
Rimase lì sospesa, per un po’, già tradotta e quindi comprensibile, letteralmente parlando, ma chissà perché in Latino suonava ancora meglio, più incisiva, più definitiva, drammatica ed al contempo molto rassicurante.
“Spesso noi moriamo per la paura di morire….”
C’è scritto ancora. Paura di morire. L’abbiamo tutti o no, caro lettore, che sei a questo punto del libro. Hai paura oggi di morire? O di come morire? La morte, questo tabù, per la nostra società. Dimenticata ed ignorata, scansata ed al massimo spettacolarizzata. Si muore come il grande Ayrton Senna: il resto non è morte. E’ qualcosa che non ci riguarda. E siamo pazzi nel dire questo, nel pensarlo, perché di Senna ce ne è uno solo, il resto siamo tutti noi.
E poi Seneca prosegue con un grande pensiero centrale di tutto il capitolo e di tutta la nostra riflessione. Lo leggiamo assieme di un colpo, mentre ancora le immagini della morte di Ayrton scorrono nei nostri pensieri.
“Chi ha timore della morte non farà mai nulla di veramente degno di un uomo, ma chi è consapevole che la morte è stata per lui fissata all’atto stesso del concepimento vivrà secondo questa legge ed in più riuscirà, con la stessa forza d’animo, a conseguire anche il risultato di non essere mai colto di sorpresa qualunque cosa possa succedergli.”
Chi ha timore della morte non farà mai nulla di veramente degno di un uomo. Certo che il buon Seneca non usava mezzi termini. Quindi, cari amici, se alla domanda di prima vi siete risposti, come me, sì, ho paura della morte, sappiate, sappiamo, che non faremo mai nulla di degno come esseri umani.
Ma che cosa ha detto di nuovo e di straordinario Seneca? Quante volte anche noi, Francesco, ci siamo soffermati dicendo: beh, moriamo solo per il fatto che siamo nati. Poi è una questione di tempo e di modi: chi prima, chi dopo, chi in un incidente in moto, chi per malattia e chi per vecchiaia, sereno, infilandosi in bocca il suo ultimo sigaro. Ma lo stile del morire, ci avevamo mai pensato. Pensare che la morte è inscritta in noi dal concepimento dovrebbe rasserenarci, ci dice Seneca, dovrebbe aiutarci a vivere il tutto come un fatto naturale e ad accettarlo. Accettare. Che brutto termine oggi. Ma cosa vuole questa vita da me? Già mi ha chiesto di restituirgli essa stessa cercandomi di convincere che mi era stata solo data in prestito, ma chi gliel’ha chiesto questo prestito? In più non sai neanche se è un prestito a medio o lungo termine, cioè a tutti ci viene data la stessa vita ma a qualcuno viene già chiesta quando ancora è in pancia della mamma, mentre muore schiacciato sotto il crollo delle scuole elementari, durante il primo giro in motorino, alla gita del liceo, prima della laurea, partendo per il viaggio di nozze, alla nascita del sesto nipote, dopo aver visto le cento candeline. E’ giusto tutto questo? Vi sembra corretto, caro signore che decidi tutto, questa disparità enorme? Ed io dovrei accettarla? Io, che vivo in una società che è incapace di accettare le più piccole menomazioni, le malattie tanto che elimina la malattia non guarendola ma sopprimendo con l’aborto i figli portatori di handicap? Io che studio scienza, una scienza che vuole essere perfetta e che davanti alla morte si trova impotente e quindi o cerca di allontanarla più possibile infliggendo pene aberranti all’essere umano, ecco l’accanimento terapeutico, oppure con la scusa di pretendere di essere padroni di se stessi la abbrevia così può dire di non aver subito la morte ma scelto: ma chi credi di imbrogliare, caro il mio dottore. Accettare i propri limiti per vivere meglio è forse un subirli passivamente od un imparare a conviverci?
Ci vuole una vita intera, credo, per rispondersi a queste domande ma più sereno di me vedevo Francesco capace di sottolineare con sorrisi ironici qualche mia elucubrazione troppo preoccupata. Vedevo sereno lui, lui, disteso sul letto di ospedale e non io che, bene o male, avevo più prospettiva di vita.
“E’ proprio questo l’insegnamento, caro Giorgio, e qui ti sbagli. Tu stasera sei sicuro di tornare a casa?”
Ovviamente cercai di raggiungere con entrambe le mani le mie parti intime per i debiti scongiuri.
“Tieni le mani alzate, altolà. Non scherzare su queste cose. E’ questo che ci sta dicendo Seneca. Caro amico, tu stasera esci di qui e fai un incidente e sei bell’e che in Purgatorio prima di me. Io mi incavolerei come una bestia se capitasse una cosa del genere”
Perché amico?
“Come perché? Perché questa volta gioco davanti io, gioco per primo io e non mi devi rubare come al solito il posto solo per dimostrarmi che sei il primo, ok?”
Sì, basta che non ti arrabbi, te lo lascio volentieri, questa volta, faccio io il rifinitore.
“Ecco bravo. Vedi, non credo che sia una questione di tempo. La vita da a tutti il tempo per prepararsi a morire e di conseguenza a vivere bene. Non so, ma io sento che queste parole siano vere ed è quello che ci dicevamo l’altro giorno: ringrazio questa malattia perché mi lascia ancora un po’ di tempo per prepararmi. Tu, devi cominciare adesso a prepararti altrimenti ti coglierà impreparato”.
Cosa voleva dirmi il mio amico, di preciso non lo sapevo. So solo che quella sera percorsi i 12 chilometri che separano il suo letto dal mio con la massima cautela, fermandomi anche ai gialli dei semafori, abitudine che un po’ si sta perdendo. Tenevo accuratamente anche le distanze di sicurezza, due mani sul volante, non fumai durante il tragitto e nemmeno mi misi ad osservare le vetrine lungo la varesina per notare i cambiamenti della nostra società. Mi fermai sul ponte dell’autostrada per spiare dentro al vecchio cimitero: centinaia, forse migliaia di lumini e quindi migliaia di persone ora morte. Ecco i miei nonni morti quando ancora ero piccolino, ecco Tiziana caduta da una bicicletta, e poi Maurizio credo che si trovi in quella zona lì, quella più bassa, e mio Zio racchiuso lì dentro con tutti gli insegnamenti suoi; ecco Stefano, anche lui portato via dalla stessa passione, la motocicletta; eccoli Marta e Giovanni, uccisi in volo per Copenaghen, diretti sulla Luna ma solo di miele. Ecco il papà del mio amico e lui, con la sua anima e la sua ombra sempre lì a chiedersi perché e non ricordo neanche più quanti anni sono passati. Ecco Rosy, quella piccolina appena nata che ha vissuto solo due ore ma grazie a lei vivono tanti altri. E poi ecco… i tanti altri. Le luci del cimitero col contrasto di luci di auto in corsa verso Bergamo o provenienti da là: anche qui luci rosse, e luci bianche. Ma ascoltatemi un po’, nonni, zii, amici, Maurizio, Stefano, ascoltatemi un attimo. Sono quassù, mi vedete. Ehi! Sono io, mi vedete. Ascoltatemi, rispondetemi. Ditemi voi se lo sapevate che la morte era una festa promessa da tempo e data per premio. Ditemi voi se sapevate che la vita vi era stata solo data in prestito. Ditemi voi se avete accettato tutto questo?
(da L'amico con la Elle maiuscola di Giorgio Gibertini)
“Il mio discorso si rivolge a chi è lontano dalla perfezione, mediocre, ancora malato, non al sapiente.”
Hai trovato un testo che parla proprio di noi, mi sorrise Francesco, predisponendosi all’ascolto.
“Costui non deve camminare con cautela, passo passo, perché ha tanta fiducia in se stesso che non esita ad affrontare il suo destino né cederà mai di fronte ad esso. E neppure deve temerlo, perché considera tra le cose precarie non solo gli schiavi, la ricchezza e la posizione sociale, ma addirittura il suo corpo, i suoi occhi, le sue mani, tutto quando rende più cara la sua vita; perfino se stesso mette fra le cose precarie, e vive come se la sua esistenza gli fosse data in prestito, pronto a restituirla senza rimpianti, alla prima richiesta”.
Beh, che ne dici Francesco, già abbastanza esplicito “il ragazzo”, non credi? Quell’esistenza come data in prestito, che concetto difficile da far capire alla contemporanea società secolarizzata dove alcuni soloni del pensiero comune si esprimono anche sostenendo che sono padroni della propria vita. Oggi, il concetto di prestito è veramente difficile da far digerire, a meno che non si parli di banche ed interessi bancari. Anche agli amici si prestano le cose magari aspettandosi una bottiglia di Chianti al ritorno dalla gita. Ma non solo. Pronti a restituirla, senza rimpianti, alla prima richiesta. Era questa la prima richiesta o quante altre ne erano già passate? Ricordi Francesco, quella volta del tuo incidente stradale, quando d’improvviso ti sei trovato seduto sul ciglio della strada a guardare un’accartocciata lamiera simil tua macchina, fumante, in mezzo alla corsia e tu incredulo a chiederti: che cosa ci faccio qui? Eri pronto quel giorno a restituire la tua vita data in prestito? Ma era quella la prima chiamata o solo un’avvisaglia?
“Che cosa c’è di male a ritornare là da dove si è venuti? Vivrà male chi non saprà morire bene. Bisogna saper svalutare questa vita e metterla tra le cose di poco conto.”
“Vivrà male chi non saprà morire bene. Fermati un attimo Giorgio. Anzi, fermiamoci su questa frase cosa vuol dire?”
Ci volle proprio una lunga pausa, prima di riprendere il discorso: cosa voleva dire?
“Mi fai sentire come suona in latino?” mi chiese.
Mi prendi in giro? Vuoi mettermi in difficoltà? Sorrise.
Male uiuet quisquis nesciet bene mori
Rimase lì sospesa, per un po’, già tradotta e quindi comprensibile, letteralmente parlando, ma chissà perché in Latino suonava ancora meglio, più incisiva, più definitiva, drammatica ed al contempo molto rassicurante.
“Spesso noi moriamo per la paura di morire….”
C’è scritto ancora. Paura di morire. L’abbiamo tutti o no, caro lettore, che sei a questo punto del libro. Hai paura oggi di morire? O di come morire? La morte, questo tabù, per la nostra società. Dimenticata ed ignorata, scansata ed al massimo spettacolarizzata. Si muore come il grande Ayrton Senna: il resto non è morte. E’ qualcosa che non ci riguarda. E siamo pazzi nel dire questo, nel pensarlo, perché di Senna ce ne è uno solo, il resto siamo tutti noi.
E poi Seneca prosegue con un grande pensiero centrale di tutto il capitolo e di tutta la nostra riflessione. Lo leggiamo assieme di un colpo, mentre ancora le immagini della morte di Ayrton scorrono nei nostri pensieri.
“Chi ha timore della morte non farà mai nulla di veramente degno di un uomo, ma chi è consapevole che la morte è stata per lui fissata all’atto stesso del concepimento vivrà secondo questa legge ed in più riuscirà, con la stessa forza d’animo, a conseguire anche il risultato di non essere mai colto di sorpresa qualunque cosa possa succedergli.”
Chi ha timore della morte non farà mai nulla di veramente degno di un uomo. Certo che il buon Seneca non usava mezzi termini. Quindi, cari amici, se alla domanda di prima vi siete risposti, come me, sì, ho paura della morte, sappiate, sappiamo, che non faremo mai nulla di degno come esseri umani.
Ma che cosa ha detto di nuovo e di straordinario Seneca? Quante volte anche noi, Francesco, ci siamo soffermati dicendo: beh, moriamo solo per il fatto che siamo nati. Poi è una questione di tempo e di modi: chi prima, chi dopo, chi in un incidente in moto, chi per malattia e chi per vecchiaia, sereno, infilandosi in bocca il suo ultimo sigaro. Ma lo stile del morire, ci avevamo mai pensato. Pensare che la morte è inscritta in noi dal concepimento dovrebbe rasserenarci, ci dice Seneca, dovrebbe aiutarci a vivere il tutto come un fatto naturale e ad accettarlo. Accettare. Che brutto termine oggi. Ma cosa vuole questa vita da me? Già mi ha chiesto di restituirgli essa stessa cercandomi di convincere che mi era stata solo data in prestito, ma chi gliel’ha chiesto questo prestito? In più non sai neanche se è un prestito a medio o lungo termine, cioè a tutti ci viene data la stessa vita ma a qualcuno viene già chiesta quando ancora è in pancia della mamma, mentre muore schiacciato sotto il crollo delle scuole elementari, durante il primo giro in motorino, alla gita del liceo, prima della laurea, partendo per il viaggio di nozze, alla nascita del sesto nipote, dopo aver visto le cento candeline. E’ giusto tutto questo? Vi sembra corretto, caro signore che decidi tutto, questa disparità enorme? Ed io dovrei accettarla? Io, che vivo in una società che è incapace di accettare le più piccole menomazioni, le malattie tanto che elimina la malattia non guarendola ma sopprimendo con l’aborto i figli portatori di handicap? Io che studio scienza, una scienza che vuole essere perfetta e che davanti alla morte si trova impotente e quindi o cerca di allontanarla più possibile infliggendo pene aberranti all’essere umano, ecco l’accanimento terapeutico, oppure con la scusa di pretendere di essere padroni di se stessi la abbrevia così può dire di non aver subito la morte ma scelto: ma chi credi di imbrogliare, caro il mio dottore. Accettare i propri limiti per vivere meglio è forse un subirli passivamente od un imparare a conviverci?
Ci vuole una vita intera, credo, per rispondersi a queste domande ma più sereno di me vedevo Francesco capace di sottolineare con sorrisi ironici qualche mia elucubrazione troppo preoccupata. Vedevo sereno lui, lui, disteso sul letto di ospedale e non io che, bene o male, avevo più prospettiva di vita.
“E’ proprio questo l’insegnamento, caro Giorgio, e qui ti sbagli. Tu stasera sei sicuro di tornare a casa?”
Ovviamente cercai di raggiungere con entrambe le mani le mie parti intime per i debiti scongiuri.
“Tieni le mani alzate, altolà. Non scherzare su queste cose. E’ questo che ci sta dicendo Seneca. Caro amico, tu stasera esci di qui e fai un incidente e sei bell’e che in Purgatorio prima di me. Io mi incavolerei come una bestia se capitasse una cosa del genere”
Perché amico?
“Come perché? Perché questa volta gioco davanti io, gioco per primo io e non mi devi rubare come al solito il posto solo per dimostrarmi che sei il primo, ok?”
Sì, basta che non ti arrabbi, te lo lascio volentieri, questa volta, faccio io il rifinitore.
“Ecco bravo. Vedi, non credo che sia una questione di tempo. La vita da a tutti il tempo per prepararsi a morire e di conseguenza a vivere bene. Non so, ma io sento che queste parole siano vere ed è quello che ci dicevamo l’altro giorno: ringrazio questa malattia perché mi lascia ancora un po’ di tempo per prepararmi. Tu, devi cominciare adesso a prepararti altrimenti ti coglierà impreparato”.
Cosa voleva dirmi il mio amico, di preciso non lo sapevo. So solo che quella sera percorsi i 12 chilometri che separano il suo letto dal mio con la massima cautela, fermandomi anche ai gialli dei semafori, abitudine che un po’ si sta perdendo. Tenevo accuratamente anche le distanze di sicurezza, due mani sul volante, non fumai durante il tragitto e nemmeno mi misi ad osservare le vetrine lungo la varesina per notare i cambiamenti della nostra società. Mi fermai sul ponte dell’autostrada per spiare dentro al vecchio cimitero: centinaia, forse migliaia di lumini e quindi migliaia di persone ora morte. Ecco i miei nonni morti quando ancora ero piccolino, ecco Tiziana caduta da una bicicletta, e poi Maurizio credo che si trovi in quella zona lì, quella più bassa, e mio Zio racchiuso lì dentro con tutti gli insegnamenti suoi; ecco Stefano, anche lui portato via dalla stessa passione, la motocicletta; eccoli Marta e Giovanni, uccisi in volo per Copenaghen, diretti sulla Luna ma solo di miele. Ecco il papà del mio amico e lui, con la sua anima e la sua ombra sempre lì a chiedersi perché e non ricordo neanche più quanti anni sono passati. Ecco Rosy, quella piccolina appena nata che ha vissuto solo due ore ma grazie a lei vivono tanti altri. E poi ecco… i tanti altri. Le luci del cimitero col contrasto di luci di auto in corsa verso Bergamo o provenienti da là: anche qui luci rosse, e luci bianche. Ma ascoltatemi un po’, nonni, zii, amici, Maurizio, Stefano, ascoltatemi un attimo. Sono quassù, mi vedete. Ehi! Sono io, mi vedete. Ascoltatemi, rispondetemi. Ditemi voi se lo sapevate che la morte era una festa promessa da tempo e data per premio. Ditemi voi se sapevate che la vita vi era stata solo data in prestito. Ditemi voi se avete accettato tutto questo?
(da L'amico con la Elle maiuscola di Giorgio Gibertini)
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