martedì 11 settembre 2007

DOCTOR HOUSE

Esiste un rapporto tra televisione e bioetica?
ROMA, 9 settembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento di Carlo Valerio Bellieni, Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro corrispondente della Pontificia Accademia Pro Vita, in risposta alla domanda di un lettore.Leggo sempre con attenzione la rubrica di Bioetica di ZENIT. Vorrei porvi alcune domande in merito al rapporto tra la bioetica e i mezzi di comunicazione di massa. Può esserci un rapporto tra TV e bioetica? Si può discutere criticamente dei santuari dell’etica alla moda (eutanasia, droga…) in uno spettacolo televisivo? Cosa pensate della serie “House, Medical Division”, trasmessa da tre anni dalla Fox?
Sì, può esserci un rapporto tra Tv e Bioetica, ed è il caso della serie “House, Medical Division”. E’ una serie che mostra qualcosa interessante: uscendo fuori dal coro, non si lascia prendere dall’osanna verso le tre ben note cuspidi del relativismo etico in medicina: l’autonomia del paziente come ultimo tribunale, il medico come “fornitore di un servizio” e la perdita di capacità di dare giudizi morali sui comportamenti in medicina. Strano, sicuramente, ma è ancora più strano (e coinvolgente) che le azioni e i giudizi non “politically correct” (pur con qualche eccezione) vengano da un personaggio in costante lotta col mondo. Ma proprio qui, nel disegnare la trasformazione del protagonista, i suoi dubbi e i suoi limiti sta la forza della serie.
 Il telefilm in apparenza è un’apologia del distacco e dell’assenza: narra di un medico (Gregory House) misantropo e scontroso che non vuol avere contatti coi pazienti. Questo distacco (dovuto alla sofferenza esistenziale e fisica) però è solo apparente: pur rimanendo burbero e asociale, ogni volta insistentemente cerca di fare i conti con il fondo della persona che si trova a curare. Parte dalla propria sofferenza per riconoscere quella degli altri e talvolta è proprio questa immedesimazione che gli fa vedere cose che agli altri sfuggono. Parla in modo brusco con i pazienti per convincerli ad accettare una cura, non per assecondarli: sa infatti che esiste un buon comportamento medico ed uno sbagliato e vuole che i suoi pazienti scelgano il comportamento buono. Ma anche perché nella risposta del paziente cerca con la massima evidenza di trovare una risposta per sé. E’ paternalismo? Forse, ma è di gran lunga migliore di chi lascia il paziente di fronte ad una diagnosi fatta di parole e cifre, solo, “libero” di scegliere se morire o vivere. Insomma: spesso le parole, e certe parole dolci e pietose molto di moda, sembra dirci con un paradosso l’autore del telefilm, servono (quelle sì!) a mascherare la distanza tra le persone.
Tutto questo viene ottimamente sottolineato dalla colonna sonora, ricca di musiche a tema religioso o che mostrano l’insoddisfazione di una vita senza senso (per esempio la bellissima “Desire” di Ryan Adams o “Hallelujah” di Jeff Buckley).
Notiamo due punti chiari in chi ha creato il telefilm: primo, che il medico non è il “fornitore di un servizio” cui ogni richiesta è equivalente, ma sa riconoscere una buona risposta da una cattiva risposta e sa trovare la forza di non fornire la seconda: House intuba il jazzista nonostante tutti abbiano paura di trasgredire il suo “testamento biologico”; e anche la sua collega “Cuddy” non è da meno: alla richiesta di un’iniezione di morfina, in realtà gli inietta un placebo. Secondo, che il rapporto tra medico e paziente non è mai a senso unico: non c’è solo chi dà (il medico) e chi riceve (il malato), ma il medico o si trova nella posizione di imparare dal malato la sua forza e il suo impegno, il suo modo di comunicare e i suoi segnali nascosti… o dà un trattamento mozzo, al limite dell’inefficace. House cura il bambino autistico riuscendo (lui solo) ad entrare in contatto con lui; non solo ma alla fine, quando sembra accodarsi al pensiero che forse curare un bambino dalla difficilissima gestione è una specie di accanimento terapeutico, il bambino lo avvicina, lo fissa negli occhi e gli regala il suo giocattolo... stupendo tutti (un bambino autistico raramente fissa lo sguardo altrui e intrattiene rapporti) e riempiendo di gioia, pur nella certezza della difficoltà estrema, i suoi genitori; ma anche fornendo a House spunto per una riflessione su di sé. Ma House va anche dalla manager depressa che aspetta di esser messa in lista per il trapianto di cuore e le domanda urlando “Ma vuoi vivere? Dimmelo, perché anch’io non lo so!” e non lo fa perché questa stenda un “testamento biologico”, ma per risvegliare in lei (e in sé!) l’amore alla vita.
Certo, House non è un santo e talvolta sbaglia le scelte morali. Ma se si trattasse di un santo, sarebbe così stupefacente sentirlo scagliarsi, come di fatto accade, contro la droga o il sesso incestuoso o la fecondazione eterologa? Sarebbe così “forte” sentirlo porsi delle domande sull’umanità di un feto? E qui bisogna distinguere il personaggio dal creatore che usa il primo con i suoi limiti e sbagli . In alcuni momenti poi, gli spunti positivi vengono da altri personaggi della serie, come quando di fronte al cinismo di House, l’assistente domanda “ma bisogna essere religiosi per capire che un feto è vita?”, o la collega, cui domandano a proposito di una bambina che perderà un braccio “che qualità di vita avrà”, risponde “la vita ha sempre delle qualità”.
House sa stupirsi: sbaglia, digrigna i denti, ma sa riconoscere l’umano quando lo incontra. Questo è un punto importante, spesso dimenticato nell’attività medica: lo stupore verso l’umanità misteriosa del paziente. House si lascia abbracciare dalla bambina con tumore cui ha prolungato la vita di un anno, e colpito dalla forza morale della piccola arriva a cambiare il suo stile di vita; così come si stupisce della manina del feto che esce dall’utero materno durante un’operazione chirurgica e sfiora la sua, lasciandolo tutta la giornata a riguardare il proprio dito e domandarsi chi è quella vita che nessuno considera come umana (forse neanche lui), ma che lo ha accarezzato. Il suo stupore è alla base della sua abilità curativa.
 House sembra non esserci mai per i pazienti … non è un medico buono, è colmo di dolore; ma è ricco di una domanda di significato, che non lo lascia disperare. Per questo colpisce, in un’era in cui sembra che nulla se non il proprio capriccio abbia valore, in particolare in medicina.

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