CAPIRE LA VERA POSTA IN GIOCO IL TESTAMENTO C’È GIÀ: ORA BISOGNA ARGINARE E CAMBIARE
FRANCESCO D’AGOSTINO
Le poche, ma dense parole che il presidente della Cei ha riservato al 'caso Englaro', inaugurando i lavori del Consiglio permanente, hanno suscitato – come era prevedibile – un forte interesse mediatico. In questo contesto, la reazione di Giuliano Ferrara, apparsa sul Foglio del 23 settembre, è quella che più ha destato meraviglia, per il suo carattere amichevole e rispettoso nella forma, ma particolarmente aspro nella sostanza. Ferrara, infatti, vede in quella del cardinale una risposta intimidita e confusa alle istanze della cultura postmoderna e – cosa ancor più grave – un’acquiescenza al relativismo soggettivista, che affida alla volontà soggettiva delle persone la scelta insindacabile su come si debba morire.
Eppure, chiunque legga le parole esatte di Bagnasco si rende subito conto che esse in nulla e per nulla avallano l’interpretazione di Ferrara. Ma, per l’appunto, si tratta di un’interpretazione, cioè di un 'processo alle intenzioni': e contro le interpretazioni non c’è prova testuale che tenga. Ferrara si è mosso come si muovono gli intellettuali, quando percepiscono una possibile frattura tra la realtà e i principi che essi hanno a cuore e vogliono difendere (a volte generosamente, come è appunto il caso del direttore del Foglio). Tanto peggio per la realtà, essi allora concludono. Bisogna salvare i principi; il resto non interessa.
Non è così che ragionano i cristiani.
Non c’è dubbio che essi siano uomini attaccatissimi ai loro principi; ma non stanno al mondo solo per argomentarli e difenderli (questo è il compito dei filosofi e forse più in generale degli intellettuali), bensì per fare in mondo che i principi, non restando nel mondo delle idee, operino concretamente nella realtà. Il cristiano, prima ancora di giudicare (e condannare) il mondo, lo ama; lo ama, perché Dio lo ha amato per primo creandolo, e tanto lo ha amato da incarnarsi, per salvarlo, in Gesù Cristo. Ecco perché la più bella icona di Gesù è quella del pastore (immagine che non a caso i vescovi attribuiscono a se stessi): il pastore è metafora di colui che ama e si prende cura delle sue 'pecore', e non – per dire – di uno zoologo che si interessa di loro solo come oggetto di ricerca scientifica.
Dal cardinal Bagnasco, come pastore, non ci aspettiamo disquisizioni teologiche o analisi sociologicoculturali; questo è il compito che spetta ai teologi, ai filosofi, eventualmente allo stesso Bagnasco, ma in veste diversa da quella di presidente della Cei. Da lui, come da ogni 'pastore', desideriamo apprendere come il cristianesimo deve incarnare i suoi principi nell’esperienza umana, come deve farli operare all’interno della storia, farli rispondere alle esigenze del tempo. Il cardinale ha preso correttamente atto di un 'fatto storico', i pesanti interventi della magistratura nella vicenda Englaro: un fatto dal minimo rilievo 'dottrinale', ma di notevole rilevanza bioetica e sociale. Un intellettuale può legittimamente rifiutarsi di leggere una sentenza, perché sa bene che non sono le sentenze a esplicitare ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Ma un pastore ha il dovere di farlo, perché il gregge di cui egli deve aver cura, non è mentale o virtuale, ma è un insieme concreto di persone che vogliono un orientamento per la vita quotidiana (quella su cui incidono le sentenze della magistratura).
La Cassazione, con un’infausta decisione, ha di fatto introdotto l’istituto del testamento biologico (e per di più in forma anche verbale!) nel nostro ordinamento, alterando profondamente il principio etico e giuridico del rispetto assoluto che si deve alla vita umana. Dobbiamo cioè concludere che la pretesa che si debba riconoscere ai malati un vero e proprio 'diritto' a lasciarsi morire è ormai già presente, grazie alla Cassazione, nel nostro sistema.
A questo bisogna reagire: non certo per avallare ulteriormente in forma di legge tale pretesa, ma per negarla espressamente, nel momento stesso in cui si riconosca (come aveva a suo tempo auspicato il Comitato nazionale per la bioetica) il diritto dei malati a depositare in forma scritta e rigorosamente garantita (e solo se lo ritengono opportuno) non un testamento biologico, non direttive vincolanti per i medici, ma «dichiarazioni anticipate» su quali, tra i diversi, possibili, leciti trattamenti sanitari di fine vita, essi ritengano preferibili. Auspicando un intervento saggio e innovativo del legislatore, e indicando limiti inderogabili, il cardinale ci ha dato un esempio di come la dottrina debba essere difesa sempre attraverso il riferimento all’esperienza concreta; un esempio di quello che potremmo chiamare, usando un’espressione di Kierkegaard, un autentico 'esercizio del cristianesimo', prezioso per i cristiani e meritevole di attenzione da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
FRANCESCO D’AGOSTINO
Le poche, ma dense parole che il presidente della Cei ha riservato al 'caso Englaro', inaugurando i lavori del Consiglio permanente, hanno suscitato – come era prevedibile – un forte interesse mediatico. In questo contesto, la reazione di Giuliano Ferrara, apparsa sul Foglio del 23 settembre, è quella che più ha destato meraviglia, per il suo carattere amichevole e rispettoso nella forma, ma particolarmente aspro nella sostanza. Ferrara, infatti, vede in quella del cardinale una risposta intimidita e confusa alle istanze della cultura postmoderna e – cosa ancor più grave – un’acquiescenza al relativismo soggettivista, che affida alla volontà soggettiva delle persone la scelta insindacabile su come si debba morire.
Eppure, chiunque legga le parole esatte di Bagnasco si rende subito conto che esse in nulla e per nulla avallano l’interpretazione di Ferrara. Ma, per l’appunto, si tratta di un’interpretazione, cioè di un 'processo alle intenzioni': e contro le interpretazioni non c’è prova testuale che tenga. Ferrara si è mosso come si muovono gli intellettuali, quando percepiscono una possibile frattura tra la realtà e i principi che essi hanno a cuore e vogliono difendere (a volte generosamente, come è appunto il caso del direttore del Foglio). Tanto peggio per la realtà, essi allora concludono. Bisogna salvare i principi; il resto non interessa.
Non è così che ragionano i cristiani.
Non c’è dubbio che essi siano uomini attaccatissimi ai loro principi; ma non stanno al mondo solo per argomentarli e difenderli (questo è il compito dei filosofi e forse più in generale degli intellettuali), bensì per fare in mondo che i principi, non restando nel mondo delle idee, operino concretamente nella realtà. Il cristiano, prima ancora di giudicare (e condannare) il mondo, lo ama; lo ama, perché Dio lo ha amato per primo creandolo, e tanto lo ha amato da incarnarsi, per salvarlo, in Gesù Cristo. Ecco perché la più bella icona di Gesù è quella del pastore (immagine che non a caso i vescovi attribuiscono a se stessi): il pastore è metafora di colui che ama e si prende cura delle sue 'pecore', e non – per dire – di uno zoologo che si interessa di loro solo come oggetto di ricerca scientifica.
Dal cardinal Bagnasco, come pastore, non ci aspettiamo disquisizioni teologiche o analisi sociologicoculturali; questo è il compito che spetta ai teologi, ai filosofi, eventualmente allo stesso Bagnasco, ma in veste diversa da quella di presidente della Cei. Da lui, come da ogni 'pastore', desideriamo apprendere come il cristianesimo deve incarnare i suoi principi nell’esperienza umana, come deve farli operare all’interno della storia, farli rispondere alle esigenze del tempo. Il cardinale ha preso correttamente atto di un 'fatto storico', i pesanti interventi della magistratura nella vicenda Englaro: un fatto dal minimo rilievo 'dottrinale', ma di notevole rilevanza bioetica e sociale. Un intellettuale può legittimamente rifiutarsi di leggere una sentenza, perché sa bene che non sono le sentenze a esplicitare ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Ma un pastore ha il dovere di farlo, perché il gregge di cui egli deve aver cura, non è mentale o virtuale, ma è un insieme concreto di persone che vogliono un orientamento per la vita quotidiana (quella su cui incidono le sentenze della magistratura).
La Cassazione, con un’infausta decisione, ha di fatto introdotto l’istituto del testamento biologico (e per di più in forma anche verbale!) nel nostro ordinamento, alterando profondamente il principio etico e giuridico del rispetto assoluto che si deve alla vita umana. Dobbiamo cioè concludere che la pretesa che si debba riconoscere ai malati un vero e proprio 'diritto' a lasciarsi morire è ormai già presente, grazie alla Cassazione, nel nostro sistema.
A questo bisogna reagire: non certo per avallare ulteriormente in forma di legge tale pretesa, ma per negarla espressamente, nel momento stesso in cui si riconosca (come aveva a suo tempo auspicato il Comitato nazionale per la bioetica) il diritto dei malati a depositare in forma scritta e rigorosamente garantita (e solo se lo ritengono opportuno) non un testamento biologico, non direttive vincolanti per i medici, ma «dichiarazioni anticipate» su quali, tra i diversi, possibili, leciti trattamenti sanitari di fine vita, essi ritengano preferibili. Auspicando un intervento saggio e innovativo del legislatore, e indicando limiti inderogabili, il cardinale ci ha dato un esempio di come la dottrina debba essere difesa sempre attraverso il riferimento all’esperienza concreta; un esempio di quello che potremmo chiamare, usando un’espressione di Kierkegaard, un autentico 'esercizio del cristianesimo', prezioso per i cristiani e meritevole di attenzione da parte di tutti gli uomini di buona volontà.
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