"Non ce la farà" –
qualcuno aveva già sentenziato "È morto".
In quei lunghi giorni,
nove piani di silenzio ospedaliero
che imbrogliarono persino la mia mente
(ti chiedo perdono, Francesco).
Ed eccoti invece,
comparso al Giubileo,
malato tra i malati,
croce vivente sul lastrico bianco –
il vento d’aprile, quello stesso
che fa danzare i gelsi in fiore,
ti piega ma non ti spezza.
Io che al Gemelli,
tra bollettini asettici,
sussurravo "Forse è ombra",
oggi ti vedo più luce che mai:
ulivo sradicato
che ancora riconosce la sua terra.
Hai accettato le braccia degli altri,
lo spingerti sulla carrozzina
con l’ossigeno appeso come un rosario,
senza vergogna,
come i nostri malati
che ci insegnano:
"La vita è anche questa".
Ora capisco mio padre –
il suo arrendersi al mio braccio –
capisco mia sorella
che si lascia spingere:
è tutto Vangelo.
Il Giubileo è questo:
non una porta da varcare
ma una carrozzina
da spingere assieme
Pasqua è qui, Francesco:
nel tuo silenzio che grida,
nel mio "scusami" muto,
in quell’uomo in carrozzina
che ti ha guardato e ha pianto.
Forse ha visto
ciò che noi fingiamo di non sapere:
Dio non ha mai gambe sane,
solo braccia che si fanno Cireneo.