Caratteri che pesano.
Fra poche ore il Papa lancerà il suo primo messaggio su Twitter. A chi ha una certa età e coltiva quella diffidenza per i nuovi media, che è una comprensibile connotazione generazionale, la cosa sembrerà magari non necessaria; e non utile per la Chiesa, inserirsi in questa forma di comunicazione veloce, un tweet appunto, un pigolio, un flatus vocis. Come farà poi il Papa a costringere la grandezza del suo messaggio in uno spazio così angusto? Che si può dire di profondo, in 140 caratteri?
In attesa dei tweet di Benedetto XVI, su Radio Vaticana padre Federico Lombardi ha notato che 140 caratteri non sono così pochi. Che la maggior parte dei versetti del Vangelo ne ha di meno; e che le beatitudini sono anzi molto più brevi. Effettivamente, provate. «Beati gli afflitti, perché saranno consolati», sono appena 44 battute. E il grandioso l’annuncio giovanneo dell’avvento di Cristo - «E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi», 59 caratteri.
Ora, questo non concerne ciò che il Papa dirà su Twitter, ma fa riflettere circa l’uso e il peso, soprattutto il peso, delle parole – quelle del Vangelo, e le nostre quotidiane. Siamo abituati a pensare che tanto più è importante ciò che abbiamo da dire, tanto più ci occorre spazio, pagine intere di giornale, o quei discorsi interminabili che tramortiscono gli ascoltatori. Tanto che spesso se dopo un intervento verboso si domanda a chi c’era: ma alla fine, quello, cos’ha voluto dire?, l’interlocutore risponde confusamente. Non ha capito. Non sempre è colpa sua; chi parla troppo a lungo difficilmente è un buon comunicatore. La controprova sta nel chiedere all’oratore di indicare in quattro righe – in ciò che nei lavori scientifici si chiama 'abstract' – l’essenza del suo intervento. Se non ci riesce, forse quel senso non è del tutto chiaro neanche a lui. Perché nelle parole non conta il numero, ma la densità della materia di cui sono fatte, e la passione all’altro, con cui sono dette. In questo senso i Vangeli sono un esempio di parole che paiono costituite di quei metalli a elevato peso atomico. Io ho cominciato a rileggere il Nuovo Testamento quando già facevo la giornalista, e quindi avevo imparato a mettere in pagina i pezzi in pagina, e anche a tagliarli, se occorreva. Mi ero resa conto così che un articolo è sempre abbreviabile, che c’è sempre un aggettivo non strettamente necessario, un avverbio di cui si può fare a meno. Le nostre parole, per quanto ci si sforzi, raramente arrivano al rigore essenziale. Invece quando leggevo le parabole, o le risposte di Cristo ai discepoli, mi meravigliavo: non una parola superflua, che si potesse eliminare. (Per essere dei pescatori, pensavo fra me, quei là ci sapevano fare; e anche questa forma così nuda e austera mi stupiva, come il segno di qualcosa di eccedente l’umano).
Certo, non si educa e non si evangelizza con Twitter; occorre un ambito attorno molto più grande, e un terreno, e gente che lo semini e dissodi, e madri e padri che amino ciò che cresce. Però anche il soffio di Twitter può portare parole dense, di quelle che si depositano nel cuore. Che accompagnano, in una lunga giornata oppressa dal rumore di parole leggere, o dolorose, o dure. «Non abbiate paura. Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!». Quanti di noi conservano in sé, incise, l’invocazione di Giovanni Paolo II, e se la portano dietro come un tesoro, da anni – luogo cruciale della memoria e del cuore. Eppure, contate: compresi gli spazi, sono 61 caratteri, appena.
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