Ogni vita è una storia, e la Storia è fatta di vite. La vita è il quotidiano miracolo che accresce – come dice un sapienziale detto tibetano - “la bellezza della storia dell’essere”. Quanti siamo giunti a questa spiaggia definitiva avvertiamo la singolarità dell’accaduto che ci costituisce nell’essere, la trepida e stupefatta riconoscenza per un dono non prenotato, non prenotabile, e pur tuttavia ricevuto una volta per tutte, una volta per sempre. La vita è approdo, presenza, intreccio di destini.
Se dentro l’universo dell’essere c’è un’intelligenza che ne rivela la sintassi, non caotica ma cosmica, la novità della vita di chi può dire a se stesso, dentro di sé, l’incredibile verità dell’”io” inconfondibile e unico nel quale consiste è la più pura e partecipata intuizione della Storia.
Sono raccolte in questo libro di Giorgio Gibertini alcune storie, tra le infinite, che parlano della vita nascente lungo il trepido ed aspro crinale dell’accoglienza e del rifiuto. Storie vere, storie vissute, narrate da uno scrittore pensoso e da un interprete partecipe, libere da formule letterarie e tuttavia immerse in realtà di dramma scrivibile. Di tanto la realtà sormonta l’invenzione da porre sullo sfondo lo scenario reale e la sua drammatizzazione spontanea, brutale quant’è nel vero, nelle sue gioie roventi e nei suoi roventi dolori. Sta nel proscenio introduttivo dedicato alla vita annunciata l’immagine di contiguità di destino della vita accolta e della vita rifiutata, dentro una sotterranea sala d’aspetto d’un ospedale, anonimizzato quanto basta al pudore della privacy, ma rifatto emblema dell’angoscia per il sì o per il no alla vita. Ciascuno col suo ticket colorato, e alcuni con il colore della morte. Il dramma narrativo s’impianta da sé, si sviluppa lungo la collana delle vite rischiate e salvate, e il filo conduttore che le salda insieme associa all’immagine astratta dell’accoglienza la concretezza di un abbraccio che la realizza.
Contiguità della vita e della morte, sull’alterno bilico della maternità desiderata e della maternità rifiutata, lungo i tragitti che la legge sull’aborto, intitolata alla tutela sociale della maternità, ha in realtà incanalato a precipizi distruttivi. Nella storia della vita nascente l’aborto resta il buco nero che ingoia la vita e ne annienta le stelle. Il pensiero che si approssima e si affaccia al vortice scuro è già preso nella strozza dell’angoscia; è un emblema di contraddizione immanente, vita contro vita, vita d’un figlio che diventa nuvola minacciosa, intrusione respinta, vita d’una madre che fa d’un nido una tomba. Doppia tragedia, doppia sconfitta.
Tutti sanno, e tutti per verità proclamano, che l’aborto è un dramma, “una piaga”. Ma pochi si dedicano a guarire la piaga, pochi a prevenire il dramma. Il lungo dibattito sui contenuti e sugli effetti di una legge che ci accompagna da quasi trent’anni sommando le cifre di durevoli sconfitte non può placarsi o piegarsi al teorema del conflitto fra madre e figlio, quasi duello fra il diritto di vivere e il diritto di negare la vita. Il primo pensiero di fronte all’immagine del conflitto, prima ancora di pesare senza sofismi diritto e desiderio, è il pensiero del soccorso. Per la madre e per suo figlio, in simultaneo e inscindibile abbraccio. Quanto dolore accompagna, nelle storie di vita vissuta, il pensiero abortivo; quanta umiliata solitudine nel disinteresse altrui mascherato da neutralità (“decidi tu, è affar tuo”), quanti scenari di paura d’abbandono, persino d’ostilità dei parenti, quanto cinismo di maschi fuggiaschi dopo relazioni amorose precarie; quanta angoscia nel tempo di torturante altalena fra il sì e il no.
La legge prometteva soccorso, “ogni soccorso”, finalizzato a superare la cause che potevano indurre la donna all’aborto. Non è avvenuto, la promessa è stata tradita, le “procedure” consistono, al nocciolo, in timbri, visti e certificati, quando invece qualcosa nel cuore sta andando in frantumi per sempre, con un senso di distruzione e di sconfitta della vita. L’ingiustizia dell’aborto è rivelata dal suo interno attraverso le confidenze innumerevoli raccolte nelle testimonianze delle donne che ci sono passate senza il minimo incontro di una voce o di un gesto di soccorso in favore della vita.
La giustizia non si realizza senza condivisione, senza un po’ d’amore appassionato alla vita, per la madre e per il bimbo che porta in grembo. Chi è sollecito verso la "maternità difficile" porta per prima cosa l'alleanza che rincuora e sostiene, l'aiuto che fronteggia il bisogno emergente; è una via più faticosa della scorciatoia della morte, ma è la strada umana della civiltà della vita.
“Mi hanno accolto con un abbraccio”: ogni storia narrata in questo libro diventa finestra affacciata sull’amore e sul disamore; e la varietà delle sequenze è legata da una narrazione parallela che fa da sfondo costante, quasi un pedale d’organo, ai diversi quadri; è lo stupore felice della vita d’una giovane famiglia che dice di sé e della propria nidiata, e della propria gioia, con delicata confidenza, e degli incontri con le altre storie difficili in dialogo solidale. E’ la famiglia dello scrittore. In questi tratti parabiografici, il libro si fa a volte quasi diario pascaliano; vi sono annotati pensieri di maestri di vita, brani di voci profetiche. E’ così: la vita si nutre di pensiero; i gesti dell’amore si nutrono di voci sapienziali sulla verità dell’amore. Per questo lo stile di Giorgio Gibertini, pacato e arguto e disteso, si fa a tratti impetuoso come un fiume in piena, sì che ne traspare in contagiosa commozione la grande passione per la vita.
E’ la passione che scorre nelle vene dei volontari del Movimento per la Vita e dei Centri di Aiuto alla Vita. Più fatti, che parole. Anche parole, sì, perchè una coscienza sociale anestetizzata ha bisogno di segnali di risveglio, di riflessione critica, di stimoli, là dove sotto la cenere della indifferenza continua a bruciare l'ingiustizia e il dolore della vita negata. Ma fatti, soprattutto; con lo stile discreto e silenzioso di chi è pronto ad affiancarsi alle persone in difficoltà, perchè gli stanno a cuore, offrendo di condividere il fardello e la via.
E' un dovere l'amore? Ecco l'ultimo quesito, rigorosamente senza risposta, perchè nel dominio dell'amore la parola "dovere" suona remota come l'arcaica memoria di un pianeta diverso, dal quale lo spirito è decollato, navigando ormai nella sconfinata libertà del bene. La parabola della vita nascente s’intreccia così con la rinascita quotidiana di chi tribola e invoca vita: ciascuno è in qualche modo “grembo” della vita degli altri, e può aiutarne la pienezza se l’ama o respingerla nell’asfittica morte di un deserto d’amore.
E’per questi volontari che a fianco del cimitero dei quattro milioni di bimbi abortiti, idealmente sorge una cittadella di 80 mila bambini salvati, con le loro mamme, accolte con un abbraccio. E' piccola cosa, forse, in proporzione. Ma è la città della gioia.
Sono raccolte in questo libro di Giorgio Gibertini alcune storie, tra le infinite, che parlano della vita nascente lungo il trepido ed aspro crinale dell’accoglienza e del rifiuto. Storie vere, storie vissute, narrate da uno scrittore pensoso e da un interprete partecipe, libere da formule letterarie e tuttavia immerse in realtà di dramma scrivibile. Di tanto la realtà sormonta l’invenzione da porre sullo sfondo lo scenario reale e la sua drammatizzazione spontanea, brutale quant’è nel vero, nelle sue gioie roventi e nei suoi roventi dolori. Sta nel proscenio introduttivo dedicato alla vita annunciata l’immagine di contiguità di destino della vita accolta e della vita rifiutata, dentro una sotterranea sala d’aspetto d’un ospedale, anonimizzato quanto basta al pudore della privacy, ma rifatto emblema dell’angoscia per il sì o per il no alla vita. Ciascuno col suo ticket colorato, e alcuni con il colore della morte. Il dramma narrativo s’impianta da sé, si sviluppa lungo la collana delle vite rischiate e salvate, e il filo conduttore che le salda insieme associa all’immagine astratta dell’accoglienza la concretezza di un abbraccio che la realizza.
Contiguità della vita e della morte, sull’alterno bilico della maternità desiderata e della maternità rifiutata, lungo i tragitti che la legge sull’aborto, intitolata alla tutela sociale della maternità, ha in realtà incanalato a precipizi distruttivi. Nella storia della vita nascente l’aborto resta il buco nero che ingoia la vita e ne annienta le stelle. Il pensiero che si approssima e si affaccia al vortice scuro è già preso nella strozza dell’angoscia; è un emblema di contraddizione immanente, vita contro vita, vita d’un figlio che diventa nuvola minacciosa, intrusione respinta, vita d’una madre che fa d’un nido una tomba. Doppia tragedia, doppia sconfitta.
Tutti sanno, e tutti per verità proclamano, che l’aborto è un dramma, “una piaga”. Ma pochi si dedicano a guarire la piaga, pochi a prevenire il dramma. Il lungo dibattito sui contenuti e sugli effetti di una legge che ci accompagna da quasi trent’anni sommando le cifre di durevoli sconfitte non può placarsi o piegarsi al teorema del conflitto fra madre e figlio, quasi duello fra il diritto di vivere e il diritto di negare la vita. Il primo pensiero di fronte all’immagine del conflitto, prima ancora di pesare senza sofismi diritto e desiderio, è il pensiero del soccorso. Per la madre e per suo figlio, in simultaneo e inscindibile abbraccio. Quanto dolore accompagna, nelle storie di vita vissuta, il pensiero abortivo; quanta umiliata solitudine nel disinteresse altrui mascherato da neutralità (“decidi tu, è affar tuo”), quanti scenari di paura d’abbandono, persino d’ostilità dei parenti, quanto cinismo di maschi fuggiaschi dopo relazioni amorose precarie; quanta angoscia nel tempo di torturante altalena fra il sì e il no.
La legge prometteva soccorso, “ogni soccorso”, finalizzato a superare la cause che potevano indurre la donna all’aborto. Non è avvenuto, la promessa è stata tradita, le “procedure” consistono, al nocciolo, in timbri, visti e certificati, quando invece qualcosa nel cuore sta andando in frantumi per sempre, con un senso di distruzione e di sconfitta della vita. L’ingiustizia dell’aborto è rivelata dal suo interno attraverso le confidenze innumerevoli raccolte nelle testimonianze delle donne che ci sono passate senza il minimo incontro di una voce o di un gesto di soccorso in favore della vita.
La giustizia non si realizza senza condivisione, senza un po’ d’amore appassionato alla vita, per la madre e per il bimbo che porta in grembo. Chi è sollecito verso la "maternità difficile" porta per prima cosa l'alleanza che rincuora e sostiene, l'aiuto che fronteggia il bisogno emergente; è una via più faticosa della scorciatoia della morte, ma è la strada umana della civiltà della vita.
“Mi hanno accolto con un abbraccio”: ogni storia narrata in questo libro diventa finestra affacciata sull’amore e sul disamore; e la varietà delle sequenze è legata da una narrazione parallela che fa da sfondo costante, quasi un pedale d’organo, ai diversi quadri; è lo stupore felice della vita d’una giovane famiglia che dice di sé e della propria nidiata, e della propria gioia, con delicata confidenza, e degli incontri con le altre storie difficili in dialogo solidale. E’ la famiglia dello scrittore. In questi tratti parabiografici, il libro si fa a volte quasi diario pascaliano; vi sono annotati pensieri di maestri di vita, brani di voci profetiche. E’ così: la vita si nutre di pensiero; i gesti dell’amore si nutrono di voci sapienziali sulla verità dell’amore. Per questo lo stile di Giorgio Gibertini, pacato e arguto e disteso, si fa a tratti impetuoso come un fiume in piena, sì che ne traspare in contagiosa commozione la grande passione per la vita.
E’ la passione che scorre nelle vene dei volontari del Movimento per la Vita e dei Centri di Aiuto alla Vita. Più fatti, che parole. Anche parole, sì, perchè una coscienza sociale anestetizzata ha bisogno di segnali di risveglio, di riflessione critica, di stimoli, là dove sotto la cenere della indifferenza continua a bruciare l'ingiustizia e il dolore della vita negata. Ma fatti, soprattutto; con lo stile discreto e silenzioso di chi è pronto ad affiancarsi alle persone in difficoltà, perchè gli stanno a cuore, offrendo di condividere il fardello e la via.
E' un dovere l'amore? Ecco l'ultimo quesito, rigorosamente senza risposta, perchè nel dominio dell'amore la parola "dovere" suona remota come l'arcaica memoria di un pianeta diverso, dal quale lo spirito è decollato, navigando ormai nella sconfinata libertà del bene. La parabola della vita nascente s’intreccia così con la rinascita quotidiana di chi tribola e invoca vita: ciascuno è in qualche modo “grembo” della vita degli altri, e può aiutarne la pienezza se l’ama o respingerla nell’asfittica morte di un deserto d’amore.
E’per questi volontari che a fianco del cimitero dei quattro milioni di bimbi abortiti, idealmente sorge una cittadella di 80 mila bambini salvati, con le loro mamme, accolte con un abbraccio. E' piccola cosa, forse, in proporzione. Ma è la città della gioia.
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