Corriere della sera, 11 ottobre 2006
Il prezzo di un errore
(Magdi Allam)
Perché mai non dovrebbe riaprire una scuola chiusa per «inagibilità dei locali» e che ora dispone delle autorizzazioni richieste dai Vigili del fuoco e dall' Asl? Non è forse vero che «sono state rispettate le regole», come afferma Marilena Adamo, capogruppo dell'Ulivo al Comune di Milano?
Non è forse vero che la legittimità del provvedimento è stata certificata dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida, nelle vesti di legale della scuola? Non è forse vero che la preside della Facoltà di Scienze della Formazione della Bicocca, Susanna Mantovani, è indicata come la garante scientifica della scuola? Non è forse vero che, a norma di legge, verranno seguiti i programmi scolastici ministeriali dell'Italia e dell'Egitto, impartiti da un ugual numero di docenti italiani e arabi? Non è forse vero che l'avallo del consolato dell'Egitto, un Paese arabo moderato, deve rassicurarci? Non è forse vero che il coinvolgimento delle Acli, la principale associazione sindacale cattolica, che ha concesso in affitto i locali di via Ventura, è un ulteriore sigillo di garanzia? A questo punto si vorrebbe far apparire come manovre estreme di dubbia credibilità, velate da un pregiudizio etnico- confessionale, la condanna del direttore scolastico regionale, Mario Dutto, che ricorda che «l'istanza di autorizzazione di scuola straniera presentata in data 4 maggio 2006 dall'associazione "Insieme" ha avuto una risposta negativa fin dal giugno 2006. Le successive documentazioni pervenute sono state tardive e non sufficienti per superare il diniego già espresso». O il monito del ministro dell'Istruzione Giuseppe Fioroni circa il fatto che «la legge in Italia è uguale per tutti e tutti devono rispettarla allo stesso modo». O la protesta del sindaco di Milano, Letizia Moratti: «Aprire una scuola senza autorizzazioni è indice di mancanza di rispetto nei confronti delle autorità». E poco importa che il centinaio di ragazzi che risultano iscritti alla scuola sono in realtà lo zoccolo duro dei frequentatori della scuola islamica di via Quaranta dal nome eloquente «Alba dell'islam», coloro che si oppongono strenuamente all'integrazione.
Perché, formalmente, quell'esperienza è stata chiusa, e poi riesumata con la denominazione ecumenica e soporifera «Insieme» (ben altro rispetto alla pluri-inquisita moschea di viale Jenner!), e con l'istituzione di una scuola al premio Nobel per la letteratura Nagib Mahfuz, che si è trasformata miracolosamente in una realtà araba e non più islamica, laica e non più religiosa. Ebbene la nuova vicenda della scuola di via Ventura conferma la persistenza dello sbandamento cognitivo e etico dell'Italia in preda alla mistificazione della realtà e al relativismo culturale, religioso, valoriale e giuridico. Per 15 anni le autorità locali e nazionali hanno consentito l'attività di un centro di indottrinamento all'ideologia islamica radicale, sorto all'ombra della moschea di viale Jenner, assolutamente illegale. Eppure quando il 6 settembre 2005 si decise di chiudere la «scuola islamica» trasferitasi in via Quaranta, lo si fece non perché illegale, ma banalmente per «inagibilità dei locali». Come se il problema non fosse l'esaltazione della «guerra santa islamica», intonata nell'inno mattutino cantato dai ragazzi, o la trasmissione della cultura dello scontro, della separazione identitaria, della violenza religiosa e del martirio islamico inculcata nelle aule. Le istituzioni italiane non solo non hanno sanzionato né i predicatori d'odio che praticavano questo lavaggio di cervello né i genitori che sottraevano i figli al dovere della scuola dell'obbligo, ma sono scesi a patti elevandoli a propri legittimi interlocutori, continuando a violare la legge e mercanteggiando sui nostri valori. La verità che emerge è che i peggiori nemici dell'Italia sono gli italiani che si rendono collusi, ideologicamente e concretamente, con gli estremisti islamici o comunque dediti ad affermare un'identità separata e conflittuale con la comune identità nazionale. Finendo per negare l'evidenza dei fatti. Al punto che siamo diventati prigionieri delle nostre stesse leggi, percepite su un piano rigorosamente formale senza contestualizzarle e sostanziarne l'applicazione.
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