lunedì 8 ottobre 2007

Il tarlo che insidia la gravidanza di Carlo Bellieni

“Il fatto che possiamo farlo,- dice al Los Angeles Times WR Wilcox, che da anni cura la malattia di Gaucher,- non significa che dobbiamo farlo”, riferendosi allo screening prenatale per questa malattia. In realtà si tratta di una malattia grave, ma solo in certi casi. Ma quanto può la paura nel convogliare verso l’aborto al primo sentore di rischio; e quanto aiuta invece trovare un medico che collabora a fare un cammino diagnostico e culturale insieme: uno studio ora pubblicato sul Journal of the American Medical Association mostra che, se correttamente informati, la percentuale di coppie che decidono di abortire cala dal 66% all’8%:
Si moltiplicano però esami discutibili; come può esserlo la diagnosi preimpianto (cioè sull’embrione) per la predisposizione di cancro al seno, malattia mortale fin quando non si è imparato a prevenirla e a curarla; ma anche per lo strabismo, come attualmente è possibile in Inghilterra. Insomma, si arriva ad eliminare non solo i malati gravi –cosa comunque non accettabile- ma anche quelli non gravi e perfino i semplici portatori di malattie.
A gennaio su “Le Monde” un famoso coreografo francese affetto da Sindrome di Marfan scrisse un focoso editoriale, perché per l'etichetta di malato genetico che ha ricevuto –pur essendo la sua malattia senza serie ripercussioni sulla salute- ha dovuto quasi vergognarsi della propria condizione. E s'indigna che ora questa malattia venga ricercata al setaccio prima di nascere, come se fosse una tara. Eppure era la malattia di Paganini e Lincoln.
L’offerta di test prenatali è giustificata anche da alcuni filosofi: “Dobbiamo permettere la selezione -scrive Julian Savulescu- in base alla presenza di geni che non provocano malattie, anche se questo mantiene o incrementa la disparità sociale. Mi riferisco ai geni per l’intelligenza e alla selezione in base al sesso”.
Gli esami di screening diventano routine, in nome di un diritto di tutti all’accesso ai servizi, spiega Carine Vassy, ricercatrice dell’INSERM parigino, e questo “porta le pazienti a considerare che non ci sia una decisione attiva da prendere e a sottoporsi al test perché<<tutti lo fanno>>”. Anche altri recenti studi mostrano come l’accesso alla reale informazione in caso di diagnosi prenatale sia perlomeno zoppicante. “Dal momento che le autorità pubbliche hanno deciso di finanziare con denaro pubblico a livello nazionale prima il cariotipo e poi gli screening,”spiega ancora la Vassy, alcuni hanno pensato che “queste fossero delle linee-guida per una corretta gestione”; e aggiunge che in Francia una neo-mamma su sei non sa neanche “se ha fatto i test biochimici per la Sindrome Down in gravidanza”. Uno studio danese la dice lunga su quanto nella diagnosi prenatale la ricerca della perfezione sia associato a paura e ansia, quando mostra che le donne più povere – e, pensiamo noi, anche più semplici- con le ecografie vogliono solo vedere il bambino; le più ricche vogliono vedere se è normale.
La diagnosi prenatale è ottima cosa, a patto che rispetti tutti i soggetti interessati (madre e feto): misurare la crescita, valutare eventuali anomalie correggibili è doveroso. Altra cosa è l’analisi genetica: andare a scavare nei segreti del DNA può servire a tranquillizzarci, forse, ma può anche mettere di fronte a nuovi problemi: nel caso che si riscontri un’anomalia innocua, resta la sensazione spiacevole di avere un problema genetico, una sorta di bollino blu al contrario. Il filosofo Boyle e lo stesso Savulescu spiegavano nel 2003 che dare informazioni non chieste dai genitori può essere pericoloso perché mette di fronte a scelte non cercate e perché può intaccare dopo la nascita il rapporto col figlio (per esempio se si scopre portatore -non affetto- di una malattia). D’altronde, per amare un figlio, bisogna contargli i cromosomi? Bisogna aspettare la sua “perfezione”? Non sarà poi difficile smettere di pretendere la perfezione (a scuola, negli affetti) se l’abbiamo pretesa prima di nascere? In Italia abbiamo un record di indagini genetiche, sia dal liquido amniotico che dal sangue materno, segno di facile fruizione, ma anche di elevato tasso di ansia. Molte sono utili, alcune meno. Non è detto che per il fatto di essere disponibile un esame sia opportuno: dobbiamo informarci, sapere se potrà essere utile al bambino o solo alla nostra ansia o alla nostra scarsa capacità di accettarlo; dire di sì, se siamo convinti. Talvolta saper dire di no.

1 commento:

Unknown ha detto...

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