I giudici mi hanno interrogato sette ore. Ho detto tutta la verità. Che è questa: sì, ho aiutato i nostri servizi segreti a difendere l'Italia dai terroristi. E adesso vi spiego perché e come
Caro Direttore, ti scrivo come si fa a un amico e a un padre. Se ritieni ancora degna la mia firma, magari per oggi e poi più, passa questa lettera ai lettori e ai colleghi di Libero. Dopo di che mandami a casa, se credi. Privatamente in queste ore a te - che eri ignaro dei miei casini - ho detto tutto e anche di più, ma è meglio fermare le cose sulla carta.
Quando è cominciata la quarta guerra mondiale, quella scatenata da Osama Bin Laden in nome dell'islam contro l'Occidente crociato ed ebreo, ero animato da propositi eroici. Mi conosci come le tue tasche. La mia ambizione è sempre stata inconsciamente quella di Karol Wojtyla: lui morire nei viaggi, io sul fronte, magari in Iraq o in Qatar. Sono immodesto anche nel paragone. Vanità e protagonismo della mutua, incoscienza, ma credendoci, buttandomi tutto. Sapevi già delle mie avventure in Serbia sul filo del rischio, convinto di riuscire a raccontare meglio le cose se però risolvevo anche i problemi del mondo. Hai sempre cercato di farmi ragionare, di trattenermi. Poi di solito ti arrendi tu: non riesco a concepire altro modo di fare il giornalista. Mi ricordo la tua sfuriata di quando ero andato vicino all'Iraq senza dirti nulla, e in più scrivendo un articolo sui tagliatori di teste di un camionista bulgaro vicino al luogo del delitto. Hai sempre voluto salvarmi la vita, sono un disgraziato ma mi vuoi bene. Forse però volermi bene oggi vuol dire farmi cambiare mestiere. Pensaci, Vittorio. Anche stavolta, dal 2001 a oggi, anzi ieri (se c'è un domani dipende se mi credi), mi sono comportato alla mia maniera: alè, in battaglia. Stavolta sono stato esaudito, ma così no, così è troppo pesante. Non mi sono rotto una gamba, non ho avuto bucato il polmone da una scheggia di piombo, ma è stato amputato il mio onore
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